venerdì 31 maggio 2013

Dove sono gli atei nel mondo

In quali paesi del mondo si concentrano maggiormente le persone che si dichiarano atee? Quali sono, in altre parole, le nazioni più laiche? Una ricerca condotta nel 2012 dalla Gallup International prova a dare una risposta a questi interrogativi, individuando i tassi di religiosità in 40 paesi (circa 50.000 intervistati).

Sulla base di questo sondaggio il Washington Post ha ricavato una mappa (incompleta, visto che si tratta di una ricerca a campione) della distribuzione degli atei nel mondo, come vediamo qui sotto.



La più alta concentrazione di persone che si dicono senza dubbio atee si registra in Cina, al primo posto con un massiccio 47%. Il secondo posto è occupato dall'altra grande potenza dell'estremo oriente, il Giappone (31% degli intervistati), tallonata da vicino dalla Repubblica ceca, primo paese europeo per tasso di ateismo con il 30%, e dalla Francia (29%). Seguono, con percentuali fra il 15% e il 10%, Corea del Sud, Germania, Paesi Bassi, Austria, Islanda, Australia e Irlanda

Le motivazioni di tali concentrazioni sono prevalentemente di natura storica. 
Come osserva anche Max Fisher del Washington Post, il potere in Cina è sempre stato scettico nei confronti delle religioni organizzate, che potevano rappresentare una minaccia per la propria stabilità. Alla metà del XIX secolo la rivolta dei Taiping, una setta religiosa di ispirazione cristiana con elementi sincretistici, provocò una sanguinosa guerra civile che espose la Cina alla penetrazione delle potenze europee. Il regime maoista ha apertamente avversato sia le religioni provenienti dall'Occidente sia quelle tradizionali, perpetrando la distruzione di templi e reliquie durante la Rivoluzione culturale degli anni '60-'70. Anche se oggi l'atteggiamento del governo comunista nei confronti delle fedi si è ammorbidito, il sentimento comune della popolazione rimane profondamente laico. 

In Giappone persiste invece un'osservanza molto formale ed esteriore delle pratiche religiose - soprattutto nel caso dei riti nuziali - ma di fatto la religiosità del paese non è mai più tornata ai livelli precedenti la Seconda guerra mondiale, quando il regime imperiale nazionalista si legò molto alle tradizioni scintoiste. Questo atteggiamento di diffidenza verso una religiosità troppo intensa ha portato a preoccupanti fenomeni di "de-conversioni" forzate da parte di familiari che cercano di recuperare un congiunto da una credenza giudicata estrema, come i Testimoni di Geova. 

Nella Repubblica ceca, come in altri paesi dell'ex blocco sovietico, l'ateismo diffuso è senz'altro un retaggio dell'ideologia comunista. Ma qui ha raggiunto percentuali più alte che altrove, segno di una laicizzazione più profonda della società ceca rispetto ad esempio a quella romena o alla stessa Russia. Stesso fenomeno si riscontra anche in Germania, dove la parte orientale - l'ex repubblica socialista della Ddr - fa da traino all'intero paese sul terreno della laicità. Qui, e in generale nel Nord Europa, l'influenza della religione è stata fortemente ridimensionata a seguito della riforma luterana, delle rivoluzioni borghesi e, nel caso della Germania Est, dell'avvento del socialismo.

In Francia la laicità è stato uno dei valori su cui si è fondata la Rivoluzione del 1789, durante la quale la religione fu combattuta e avversata in nome della Ragione. Il cristianesimo fu considerato all'origine dell'oscurantismo che aveva soggiogato i popoli ai poteri dell'Ancien Régime e fu additato come causa di superstizioni e ignoranza. Non sorprende quindi che questa impronta culturale sia rimasta profondamente impressa nello spirito dei francesi.

Quanto all'Italia, lo studio in questione la pone al diciassettesimo posto con un 8% di atei convinti, registrando una crescita del 2% rispetto alla rilevazione del 2005. A questo dato si accompagna anche un costante calo nel numero dei battesimi, che secondo una ricerca del Pew Forum on Religion and Public Life si è accentuato negli anni del pontificato di Benedetto XVI. Ma la percentuale di coloro che si dichiarano credenti si mantiene ancora alta, col 73% degli intervistati. In base ad un'indagine dell'aprile 2012 condotta da due ricercatrici italiane vi è però un 41% di individui che pur affermando di seguire la religione cattolica non si considerano persone spirituali «come se la fede - spiegano le due studiose - fosse un valore culturale, le cui radici vanno cercate nella tradizione e nell'abitudine». 

Negli Stati Uniti il sentimento religioso rimane molto forte e diffuso: si registra appena il 5% di atei (26esimo posto), ma con un aumento di ben quattro punti percentuali in appena sette anni. 

Al di là delle specifiche vicende nazionali, il declino delle religioni, soprattutto i tre grandi monoteismi, è un fenomeno riconosciuto a livello globale ormai da anni e il trend sembra affermarsi anche in paesi tradizionalmente religiosi (sorprende a questo proposito il 5% di atei convinti dichiaratisi in Arabia Saudita, paese fortemente intollerante verso i non credenti, ma anche il 10% registrato in Irlanda).

Inoltre va ribadito che la ricerca, basata su un campione di quaranta paesi, fotografa la distribuzione territoriale di coloro che si dichiarano "atei convinti". Ciò significa che sommando ad essi tutti coloro che si considerano agnostici o semplicemente "non-religiosi" si arriva a percentuali ancora più alte, in alcuni casi superiori al 50%. 


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Photo credits: Washingtonpost.com

venerdì 5 aprile 2013

Come riconoscere i fascismi


Nelle fasi di crisi economica e politica nascono spesso nuovi movimenti che si propongono di risolvere in modo drastico i problemi di un paese. C'è però il rischio che dietro l'entusiasmo innovatore e le buone intenzioni di molti si nascondano pulsioni antidemocratiche ed autoritarie, magari inconsapevoli ma non per questo meno allarmanti.

Benito Mussolini e Adolf Hitler
Come si fa a smascherare i cripto-fascismi, a identificare la natura fascista di un qualsiasi movimento politico? Ci viene in aiuto a questo proposito uno scritto di Umberto Eco del 1995, un saggio molto breve nel quale l'intellettuale piemontese delinea le caratteristiche fondamentali di tutti i fascismi, ossia di tutti quei fenomeni che a partire dal modello mussoliniano hanno replicato, in forme e con contenuti diversi, uno stesso sistema identitario e politico. 

Uno schema per riconoscere il fascismo ovunque si annidi, avendone ben presenti le caratteristiche fondamentali, i punti comuni a tutte le concrete incarnazioni che storicamente si sono determinate (il fascismo italiano, il nazismo, il franchismo, il peronismo e molti altri). Possiamo definirlo come un identikit del fascismo nella sua forma astratta, al netto delle varianti storiche.

Eco lo chiama infatti Ur-Fascismo, o “fascismo eterno”, ossia il fascismo nella sua intima essenza. Il prefisso “Ur-” viene dal tedesco ed è utilizzato per indicare la variante primigenia del concetto a cui si accompagna, la sua versione archetipica. Ur-Fascismo è quindi un idealtipo, un insieme di elementi che in numero variabile sono rintracciabili nelle diverse forme di fascismo instaurate in molte parti del mondo nel XX secolo. Perché un movimento si configuri come fascista non è necessario che si presentino tutti questi tratti contemporaneamente: rintracciarne anche uno solo è già sufficiente per metterci in allarme.

Secondo Eco, l'Ur-Fascismo presenta le seguenti caratteristiche fondamentali:

1) Il culto della tradizione. I fascismi si rifanno ad una qualche dimensione mitica di ordine ed equilibrio collocata in un passato remoto e nascosta dal velo di antiche lingue morte. La cultura non è quindi avanzamento del sapere, ma recupero di quel messaggio originario, che può avvenire con l'aiuto di autori e pensatori molto diversi fra loro, in una ricerca di tipo sincretistico.

2) Il rifiuto del modernismo, in quanto negazione della tradizione, ma non rifiuto della tecnologia: i fascismi vanno fieri dei loro progressi tecnologici, ma rigettano ciò che è moderno sul piano delle idee e dei valori. Tutto ciò che l'Illuminismo e le rivoluzioni americana e francese hanno portato sulla scena politica – uguaglianza, diritti umani, razionalismo – vengono considerati degenerazioni. Ad essi si contrappone un forte irrazionalismo.

3) Il culto dell'azione per l'azione e il rifiuto del pensiero critico. L'impulsività, l'istinto, l'azione come atto estetico vengono preferiti alla riflessione, che è un freno alla libertà dello spirito umano e un segnale di tentennamento e di debolezza. Da qui il sospetto e l'avversione verso la cultura e gli intellettuali.

Manifesto di propaganda fascista
4) Il disaccordo come tradimento. Esercitare lo spirito critico porta a operare delle distinzioni, ad assumere posizioni contrastanti, grazie alle quali il pensiero umano cresce e progredisce. L'Ur-Fascismo rifiuta tutto questo e tratta il disaccordo come tradimento, celebrando al contrario l'unità, il pensiero unico, la concordia in seno alla tradizione.

5) La paura del diverso. Proprio in ossequio al principio del pensiero unico e della condanna delle differenze, l'Ur-Fascismo chiama alla lotta contro il diverso, lo straniero, il non-allineato: è razzista per definizione. Ed è esasperando queste paure irrazionali che i fascismi costruiscono il consenso.

6) L'appello alle classi medie frustrate. L'Ur-Fascismo trova terreno fertile nel malessere delle classi pressate da crisi economiche o sconfitte politiche e spaventate dalle rivendicazioni delle classi subalterne. 

7) L'ossessione del complotto. Per dare unità a masse vaste ed eterogenee, l'Ur-Fascismo ricorre allo spauracchio del nemico esterno, appellandosi al nazionalismo e alla xenofobia. Ma il nemico deve essere anche interno, facile da riconoscere e da attaccare.

8) I nemici sono molto forti ma anche molto deboli. L'Ur-Fascismo dà ai suoi seguaci dei nemici da odiare, il che funziona tanto meglio quanto più questi ultimi vengono rappresentati come ricchi, tracotanti, privilegiati. Ma allo stesso tempo devono apparire abbastanza deboli da dare agli adepti l'idea di poterli sconfiggere. Secondo Eco questa ambigua rappresentazione del nemico fa sì che i fascismi siano destinati a perdere sempre le loro guerre in quanto incapaci di valutare obiettivamente le forze del nemico.

9) La vita è guerra permanente, il pacifismo è collusione col nemico. La retorica guerresca è il cuore del pensiero fascista e implica l'esistenza perenne di un nemico da combattere. L'idea che uno scontro risolutivo porti alla vittoria e quindi a una nuova era di pace è, secondo Eco, una delle contraddizioni che i fascismi non hanno mai risolto.

10) L'elitismo di massa. I seguaci devono sentirsi parte di un'élite, di un gruppo eletto che può e deve estendersi all'intera nazione. Allo stesso tempo il leader deve coltivare il senso di debolezza delle masse, che devono continuare a sentire il bisogno di una guida autoritaria. Nella gerarchia così instaurata, il forte domina il debole a lui sottoposto, ma quest'ultimo continua a sentirsi parte di un'élite apparentemente egualitaria.

11) Il culto dell'eroismo. Nell'ideologia ur-fascista tutti sono chiamati a diventare eroi, tutti sono educati per essere i migliori, cosicché l'eccezionale diventa normale. Ad esso è associato il culto della morte, vera e desiderabile ricompensa per una vita straordinaria. In questa impazienza di morire, chiosa l'autore, all'eroe ur-fascista “riesce più di frequente far morire gli altri”.

12) Il machismo. La retorica della guerra e dell'eroismo vengono sublimate nella sfera sessuale: la potenza dominatrice del maschio si esercita nei confronti della donna ma anche di tutti i comportamenti sessuali non conformisti, come l'omosessualità e la castità. L'Ur-Fascismo canalizza le pulsioni guerresche nel sesso e, viceversa, le armi sono vissute come surrogati fallici.

13) Il Populismo qualitativo. Mentre in democrazia le decisioni si prendono a maggioranza e quindi secondo un principio quantitativo, in una realtà ur-fascista il Popolo è rappresentato come un'entità monolitica portatrice di una volontà unica di cui il leader è interprete. In questo modo, privato di ogni potere di delega e di ogni diritto ad una varietà di opinioni, il Popolo non ha peso come quantità, ma come simbolo, come un semplice attributo del capo. In un'epoca dominata da tv e internet, l'Ur-Fascismo può presentare l'opinione di un gruppo di selezionati come “la voce del popolo”. Proprio per questo, l'Ur-Fascismo si oppone alle classi dirigenti al potere delegittimando il Parlamento in quanto non più rappresentativo della “volontà del popolo”.

14) La “neolingua”. L'Ur-Fascismo parla una lingua propria, fatta di parole d'ordine ed epiteti simbolici, di formule e di motti. In questo modo deprime le capacità critiche, offrendo sintesi comode ed efficaci in luogo di ragionamenti faticosi. La neolingua, inoltre, rafforza l'identità collettiva.

In conclusione, Eco scrive: “L'Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: "Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!" Ahimè, la vita non è così facile. L'Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l'indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo”. 

C'è qualche fenomeno contemporaneo nel quale riconoscete anche uno solo di questi elementi?

giovedì 6 dicembre 2012

Una lezione dal passato sul futuro dell'euro


«Nessuna unione monetaria è sopravvissuta senza una unione politica e fiscale». Ad affermarlo sono gli economisti americani Nouriel Roubini e Arnab Das, i quali prevedono un futuro turbolento per l'euro se i legami fra gli stati europei non si faranno più stretti. Ma a quale precedente storico si rifanno i due?

La vicenda è poco nota, ma già a partire dall'Ottocento furono tentati dei primi esperimenti di libera circolazione monetaria su scala sovranazionale, destinati a mettere in luce gli elementi di forza e quelli di debolezza di un sistema di questo tipo.

Il primo passo fu compiuto nel 1857, quando lo Zollverein, il mercato comune degli stati tedeschi, siglò un accordo di collaborazione monetaria con l'Austria. Il patto ebbe breve durata e ben scarsi risultati, finendo travolto dalle rivalità fra austriaci e prussiani sfociate in guerra nel 1866. 

Napoleone III, imperatore dei Francesi
L'idea però era piaciuta a Napoleone III, che nel 1865 tenne a battesimo l'Unione monetaria latina, un'area di scambio valutario ancorata al franco nella quale confluirono la Francia, l'Italia, la Svizzera e il Belgio. Negli anni seguenti vi presero parte anche la Grecia, l'Austria, la Romania, la Bulgaria, la Serbia e varie nazioni coloniali come Eritrea, Congo, Tunisia e Porto Rico, per un totale di ben trentadue aderenti. Per i contemporanei si trattò di un passo fondamentale verso la creazione di una moneta universale, un precedente che, auspicabilmente, avrebbe ispirato la nascita di nuove federazioni simili.

Il progetto suscitò l'ostilità dell'Inghilterra, che temeva un rafforzamento delle economie del continente a discapito della City. L'economista britannico Walter Bagehot, mentre elaborava un piano di alleanza con gli Stati Uniti in funzione di contrattacco, sostenne che l'unione monetaria finisse con l'indebolire le valute che vi circolavano, innescando fenomeni inflazionistici. 

Malgrado le difficoltà, l'unione voluta da Napoleone III ebbe lunga vita e fu sciolta solo nel 1927, dopo essere sopravvissuta anche alla prima guerra mondiale. Ciò fu possibile perché di fatto essa non influenzava le politiche fiscali e monetarie dei singoli stati membri, che in ambito economico continuavano ad esprimere la loro piena sovranità. L'Unione latina non era che una scatola vuota, un'affermazione di principio che non imponeva vincoli o parametri da rispettare. Fu questa debolezza a favorirne la longevità.

Centesimi di euro
L'euro, invece, si fonda su legami economici molto stretti fra i paesi membri, ma, come sottolineano Roubini e Das, le sue difficoltà nascono proprio dalla insufficiente coesione politica fra i vari stati. L'assenza di un forte organismo statuale centrale, capace di dettare una politica fiscale unica, è da molte parti indicato come il vero punto debole dell'eurozona. La prospettiva di rinunciare a qualche pezzo della propria sovranità è ancora avversata con forza dai governi nazionali, anche quelli più europeisti. 

Che sia questo il nodo fondamentale da sciogliere per il futuro dell'euro e dell'intero progetto di unificazione europea è testimoniato anche dalle parole dell'economista belga Albert Janssen, che già nel 1911 scriveva: «Senza dubbio c'è qualcosa che seduce gli spiriti e che colpisce l'immaginazione nella fraterna unione dei popoli sul terreno monetario... Nelle condizioni attuali il regime monetario deve essere nazionale e deve essere regolato dalla legge di uno Stato indipendente. L'unione politica deve precedere la comunità monetaria».

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Photo credits: "Centesimi di euro" Julien Jorge

martedì 23 ottobre 2012

Una città italiana in Cina


Capitate in una nuova città e vi trovate a passeggiare lungo via Roma, ad ammirare piazza Dante, a fare acquisti lungo corso Vittorio Emanuele. Nulla di straordinario, se non fosse che queste strade, costeggiate da edifici in stile versiliese, si trovano a Tianjin, nel cuore della Cina, una metropoli di quasi tredici milioni di abitanti a circa due ore di viaggio da Pechino.

Quello che ora è solo un piccolo quartiere all'interno di una grande città costituiva nel secolo scorso la Concessione italiana di Tientsin, un'entità territoriale autonoma all'interno del Celeste impero, assegnata nel 1902 al Regno d'Italia come tributo per la vittoria delle potenze europee nella guerra dei Boxer. L'Italia aveva dato un suo piccolo contributo militare alla repressione del movimento antioccidentale ed aveva ottenuto in cambio 124 acri di terreno nel borgo di Tientsin (secondo la vecchia traslitterazione), accanto alle altre concessioni francese e austro-ungarica. 

Piazza Marco Polo negli anni Quaranta.
Gli italiani disegnarono e costruirono la città secondo il proprio gusto estetico, tracciando viali alberati e piazze, abbellendo i luoghi con giardini e fontane. Sorsero via Trieste e Trento, via Firenze, piazza Regina Elena e altri luoghi dai nomi evocativi di ogni città italiana, secondo una toponomastica ancora oggi indicata da cartelli bilingui. Non mancarono gli edifici di culto cattolici, come la chiesa del Sacro Cuore, realizzata in uno stile che ricorda la basilica di Santa Maria delle Grazie a Milano, e che fu anni dopo trasformata in una sala giochi.

La concessione di Tientsin, con a capo un console italiano, godeva di piena autonomia, come una città-stato, con proprie leggi, un proprio microesercito e istituzioni indipendenti come la scuola, la caserma, l'opificio e una banchina riservata nel porto fluviale. La componente italiana mantenne un iniziale distacco dall'elemento locale, ma le barriere etniche e sociali lentamente si abbassarono e nel 1934 la colonia contava 366 italiani che vivevano a stretto contatto con circa cinquemila cinesi. Proprio in quegli anni giunse a Tientsin anche Galeazzo Ciano, genero di Mussolini e suo ministro degli esteri, il quale era convinto di poter esportare il fascismo in Cina e diffonderlo proprio a partire dalla piccola colonia italiana. Il progetto naturalmente fallì, ma del passaggio del gerarca in Oriente rimase comunque un segno: un casinò, che fece fiorire in città il gioco d'azzardo.

Francobollo delle poste di
Tientsin con l'immagine
di Vittorio Emanuele III
(1916)
Fra gli italiani di Tientsin vi furono anche alcuni personaggi che arrivarono a ricoprire ruoli importanti nella vita pubblica locale. Evaristo Caretti divenne il direttore generale delle Poste cinesi, l'ingegnere Gibello Socco fu messo a capo delle ferrovie della Manciuria, mentre Quirino Gerli e Armando De Luca occuparono la direzione delle Dogane nazionali.

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale l'Italia prese le armi al fianco del Giappone, che aveva aggredito la Cina perpetrando massacri e deportazioni anche più gravi, per numero di vittime, di quelli che avvennero nell'Europa occupata dai nazisti. Con l'armistizio dell'8 settembre 1943 il piccolo contingente militare di Tientsin fu annientato dalle truppe giapponesi di stanza nella regione, mantenuta sotto controllo nipponico fino alla fine del conflitto.


La piccola Viareggio lungo il fiume Hai-Ho seguì il destino dell'Italia sconfitta e cessò di esistere, insieme a tutte le altre colonie italiane, nel 1945, dopo 43 anni di autonomia. Le architetture liberty, le belle ville in art déco e i viali alberati caddero nell'oblio, fagocitate dalla nuova Cina che si riappropriava del suo territorio martoriato e si trasformava nella Repubblica popolare sotto la guida di Mao e del Partito comunista. Il ricordo stesso della Tientsin italiana, piccolo quartiere pittoresco di quella grande metropoli che è oggi Tianjin, si è quasi perso del tutto. Pochissimi conoscono la storia di quell'angolo di Italia trapiantato in Cina, la cui memoria sembra vivere ormai solo nelle cartoline d'epoca vendute all'Hotel Hyatt, accanto alla grande stazione ferroviaria.

Architetture italiane nell'odierna Tianjin
Eppure, proprio in questi anni di forsennato sviluppo economico, la Cina sta cominciando a riconsiderare anche quegli aspetti della cultura e del patrimonio storico che per molto tempo sono stati trascurati, addirittura osteggiati dalle politiche del governo comunista. Sono nati progetti di restauro e recupero dell'antica colonia italiana, da offrire come meta insolita ai milioni di turisti che ogni anno visitano la Cina e che sono in costante aumento. La buona stella di Tianjin si chiama Wen Jiabao, primo ministro della Repubblica popolare nato proprio qui, nella città che si piazza al quarto posto nel paese per numero di abitanti. Il recupero del quartiere italiano è prima di tutto un affare economico, per una nazione in pieno boom, ma è anche il segno di una nuova cultura della conservazione e della memoria che sembra farsi largo nella dirigenza politica di questo gigante asiatico.


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Photo Credits.
"Architetture italiane nell'odierna Tianjin": TJArchi-Studio

domenica 7 ottobre 2012

Il mito della battaglia di Lepanto


È uno degli episodi storici più citati nel dibattito pubblico, quando si parla di rapporti fra Cristianesimo e Islam. E quasi sempre, va detto, viene citato a vanvera. È la battaglia di Lepanto, il grande scontro navale fra le forze dell'Europa cristiana e quelle dei turchi musulmani che ebbe luogo il 7 ottobre 1571 nelle acque del golfo di Corinto, in Grecia. La retorica cristiana celebrò quella vittoria sugli ottomani come un trionfo epocale, che aveva salvato l'Europa dal pericolo di un'invasione islamica e ne aveva difeso le radici religiose e l'indipendenza. L'entusiasmo che la notizia suscitò nel continente contribuì alla nascita del “mito”, vivo ancora oggi, secondo cui fu uno scontro decisivo per le sorti della cristianità. Ma si tratta, appunto, di retorica. 
Che cosa ha rappresentato in realtà la vittoria di Lepanto?

La battaglia di Lepanto in un dipinto di Andrea Vicentino (Venezia, Palazzo Ducale)

Poco, stando almeno alle conseguenze politiche. La battaglia non fu che un episodio dell'eterno conflitto fra cristiani e musulmani, che sarebbe continuato ancora nei secoli successivi. L'ostilità fra le potenze europee e i turchi ottomani aveva radici lontane, rintracciabili nella stessa epopea delle Crociate, conclusasi ormai da due secoli. Tuttavia, lo “spirito di crociata” continuava ad animare molti monarchi europei, in particolare i re di Spagna, che si consideravano i primi difensori della fede cattolica e individuavano i loro nemici non soltanto negli “infedeli” musulmani, ma anche negli “eretici” protestanti e calvinisti che imperversavano nel continente dopo la Riforma luterana.

Ma l'attrito con i turchi era solo in parte motivato da questioni religiose. Ben più dannosi per gli interessi occidentali erano gli assalti e le scorrerie dei pirati musulmani, che depredavano le flotte e i porti del Mediterraneo rendendo insicure le tradizionali rotte commerciali. Navi ottomane arrivarono a spingersi anche oltre lo stretto di Gibilterra, razziando le coste atlantiche fino al mar Baltico. La Spagna di Filippo II avvertiva con urgenza la necessità di un'azione dura e risolutiva contro i pirati «barbareschi», ma si risolse ad intervenire solo dopo la conquista turca di Cipro, che nel 1570 venne strappata alla repubblica di Venezia. 

Di fronte ad uno smacco strategico così significativo, papa Pio V riuscì a coalizzare attorno a sé una Lega Santa composta, oltre che dalle forze pontificie, da spagnoli e veneziani, con la presenza anche di Genova e altri stati italiani. Il comando fu affidato a don Giovanni d'Austria, fratello naturale di Filippo II.


La vittoria cristiana fu attribuita all'intervento
della Madonna del Rosario
La battaglia segnò una schiacciante vittoria militare della coalizione italo-spagnola, che distrusse buona parte della flotta ottomana di Selim II e liberò migliaia di schiavi cristiani. L'emozione fu grande in tutta Europa e suscitò manifestazioni spontanee di gioia e celebrazioni. Non mancarono gli eccessi: in Spagna furono attuate dure persecuzioni nei confronti dei moriscos, gli islamici battezzati, i quali venivano accusati di non essersi convertiti sinceramente al cattolicesimo e di continuare a professare in segreto la loro fede. La dimensione religiosa della vittoria fu la più enfatizzata: la convinzione che il trionfo fosse stato propiziato dalla Vergine diede nuovo slancio al culto della Madonna del Rosario e diede alla Cristianità la sensazione di essersi liberata da un lungo incubo.

In realtà, la pur netta vittoria militare, col suo significato psicologico di liberazione da un'antica minaccia, non ebbe alcuna conseguenza politica di rilievo. Venezia fu comunque costretta a riconoscere il possesso ottomano dell'isola di Cipro, che pure aveva rappresentato il casus belli. La flotta turca fu rapidamente ricostruita, mentre rimasero di fatto invariati gli assetti territoriali e i rapporti di forza reciproci. Che la battaglia abbia rinsaldato i legami di solidarietà fra le potenze cristiane è vero solo in parte: alla Lega Santa non aderì infatti la Francia, intenzionata a non compromettere le proprie relazioni diplomatiche con il sultano e a non favorire un trionfo della Spagna.

L'unico vero significato della vittoria di Lepanto fu la dimostrazione che i tanto temuti turchi potevano essere battuti e che la loro invincibilità era solo una leggenda. Un risultato simbolico di per sé importante, ma certo molto più modesto rispetto all'immagine di vittoria epocale che la retorica cattolica ha tramandato fino ad oggi, e che offre ancora a tanti commentatori poco avveduti (o in mala fede) un argomento pretestuoso per giustificare le loro posizioni anti-islamiche.

Lepanto fu quello che oggi definiremmo un grande successo d'immagine per l'Europa cristiana, un simbolo da ostentare come risarcimento per lo shock della perdita di Costantinopoli e come riscatto di fronte a un nemico al quale per secoli ci si era sentiti inferiori.

giovedì 6 settembre 2012

Cosa si intende per "Public History"?


In America la chiamano “Public History” e consiste nel generare e diffondere il sapere storico presso il pubblico più ampio e variegato possibile, servendosi di qualsiasmedium a disposizione. Non la storia che si insegna noiosamente a scuola, dunque, non quella specialistica delle università, nemmeno quella delle ricerche ristrette a pochi “esperti” autoreferenziali. Il concetto di Public History è quello di una divulgazione sans frontières della storia, fatta attraverso i libri, i giornali, le riviste, i siti internet e i blog, gli ebook, la radio e la tv, ma anche le mostre, i musei, i convegni aperti a tutti, le manifestazioni pubbliche e qualsiasi altro mezzo possibile.

Nel mondo anglosassone è un concetto molto comune e si usa per distinguere tutto quell'ambito di professioni e attività che riguardano lo studio della storia al di fuori della ristretta comunità degli storici in senso classico, quelli che appartengono cioè alla “Academic History”. Ciò non vuol dire che i due mondi siano separati e incompatibili. Al contrario, sono due aspetti di una stessa “missione” realizzata con mezzi differenti. Molte università americane propongono degli specifici corsi di studio in Public History ed esiste anche un'associazione nazionale, il National Council on Public History, con sede a Indianapolis, che riunisce le diverse professionalità impegnate in questo campo.

Dando un'occhiata a Wikipedia (in inglese, perché in italiano non esiste nemmeno una pagina corrispondente) si può avere una definizione sintetica ed efficace di Public History: 

«Public history è un'espressione che descrive un'ampia gamma di attività svolte da persone a vario titolo formatesi nell'ambito delle discipline storiche che generalmente lavorano al di fuori dell'ambiente accademico. La pratica della Public history è radicata soprattutto in aree come la conservazione dei beni storici, le scienze archivistiche, la storia orale, la cura dei musei e altre. L'espressione Public History ha iniziato ad essere usata negli Stati Uniti e in Canada verso la fine degli anni Settanta e da allora ha conosciuto una costante crescita nei livelli di professionalità dei vari addetti. I principali ambienti nei quali il public historian lavora sono i musei, le dimore storiche, i siti di interesse storico, i parchi, i luoghi di celebri battaglie, gli archivi, le società di produzione televisiva e cinematografica e gli enti pubblici.»

Serge Noiret, dell'Istituto Universitario Europeo, scrive in un suo saggio sull'argomento:

«Il public historian offre storiografia, crea fonti, costruisce siti per aumentare la consapevolezza della storia e la permanenza delle memorie collettive al di fuori degli ambienti accademici, anche con operazioni di divulgazione scientifica e d'insegnamento della storia al servizio di datori di lavoro pubblici, ma anche privati.»

Oggi la diffusione del sapere storico può avvenire in modo ancora più ampio e rapido attraverso le risorse del web, in un'accezione più estesa e attuale del termine public. Le possibilità che ha oggi la storia di interessare e coinvolgere il grande pubblico, uscendo dalle aule universitarie e dai convegni elitari, sono infinitamente più grandi che in passato. Questo potrebbe accelerare la diffusione – già in atto – anche in Italia del concetto di “storia pubblica” o “storia per tutti”, che non è solo un modo di intendere gli studi storici, ma anche un ben preciso settore professionale, con tutte le occasioni di lavoro che potrebbe offrire se fosse adeguatamente valorizzato.

lunedì 3 settembre 2012

Quando i re di Spagna facevano bancarotta


Le crisi finanziarie non sono una prerogativa del mondo moderno. Anche se oggi i meccanismi del credito e il sistema monetario e bancario sono decisamente più ampi e complessi che in passato, certe dinamiche riguardo l'indebitamento pubblico sono rimaste le stesse. Nel Cinque-Seicento, ad esempio, avvenne più volte che i sovrani di Spagna, travolti dai debiti, dichiarassero la bancarotta.

Le prime banche, ossia compagnie di mercanti che offrivano servizi finanziari, erano nate in Italia nel Basso Medioevo e avevano cominciato a diffondersi a partire dal Duecento. I più esperti nell'arte del credito furono inizialmente i fiorentini, che spesso aprivano “filiali” in altri regni della Penisola per estendere i loro giri d'affari. Banchi come quelli degli Strozzi, dei Peruzzi, dei Bardi erano molto conosciuti e si rivolgevano a clienti facoltosi ma anche a commercianti, artigiani e piccoli risparmiatori, movimentando grandi masse di denaro. Per far fronte alle esigenze pratiche che derivavano da queste attività, i mercanti italiani inventarono molti degli strumenti creditizi e contabili che si utilizzano ancora oggi, o perfezionarono quelli già esistenti: la cambiale (detta lettera di cambio), l'assegno circolare, i buoni del tesoro, la partita doppia.

Il legame fra banchieri privati e potere pubblico andò stringendosi ancora di più nel  Rinascimento, un'epoca di guerre sanguinose e pressoché continue, combattute ovunque in Europa da sovrani scaltri e ambiziosi. 

Jakob Fugger brucia i titoli di credito davanti a Carlo V
Il più potente fra i monarchi della terra era Carlo V d'Asburgo, re di Spagna e poi anche imperatore del Sacro Romano Impero, padrone di un dominio che attraversava tutte le latitudini. Per sostenere, difendere e ampliare un impero del genere, Carlo aveva bisogno di enormi quantità di denaro, che i soli proventi delle tasse non erano in grado di assicurare. Come altri sovrani prima e dopo di lui, anche l'imperatore decise di rivolgersi ai mercanti-banchieri per ottenere prestiti coi quali finanziare le proprie campagne.

I principali creditori dell'Asburgo furono i Fugger, famiglia di banchieri tedeschi che arrivò ad annoverare fra i propri clienti vari monarchi europei, finendo con l'influenzare gli equilibri continentali con le proprie politiche finanziarie. Ma ciò significò anche, per i creditori, esporsi a gravi rischi: furono proprio le sistematiche insolvenze delle varie teste coronate a segnare il declino e poi il fallimento del banco dei Fugger, come già avvenuto nel Trecento a danno dei Bardi e dei Peruzzi. Carlo V si rivolse anche ad altri istituti – i catalani avevano acquisito posizioni importanti nel mercato finanziario, che restava però dominato dai genovesi – e alla sua abdicazione, nel 1556, lasciò in eredità al figlio, insieme alla corona di Spagna, una montagna di debiti (si parla di circa 30 milioni di ducati).

Filippo II di Spagna ritratto da Tiziano (1549-50) 
Filippo II non aveva la stessa passione del padre per le spedizioni e le conquiste. Era un uomo mite, solitario, eternamente rinchiuso fra le mura di quella reggia-monastero che era l'Escorial. Qualche guerra dovette combatterla anche lui, in particolare per mantenere il controllo delle Province Unite (gli odierni Paesi Bassi) che si ribellavano al dominio spagnolo. Ma anche in tempo di pace le spese della Corona crescevano a dismisura, in parallelo con l'espandersi delle strutture burocratiche dello Stato. I debiti accumulati nei confronti dei banchieri divennero presto inestinguibili e a ripagarli non bastarono gli aumenti di tasse, basate peraltro su un sistema di prelievo inefficiente.

Nel 1557 Filippo II si risolse a prendere una decisione estrema: dichiarare la bancarotta. In realtà si trattava di qualcosa di molto diverso dalla bancarotta di una comune impresa privata. Il sovrano, in virtù del suo potere, stabiliva unilateralmente la riconversione dei prestiti a breve termine (detti juros e caratterizzati da alti tassi d'interesse) in titoli di debito consolidato (detti asientos), che avevano termini di scadenza più lunghi e interessi più bassi. Lo Stato dichiarava bancarotta ma a fallire erano dunque i banchieri, che non ottenendo la restituzione dei prestiti finivano gambe all'aria nel giro di pochi anni.

I re di Spagna non impararono mai a gestire in modo accorto le finanze. Continuarono a ottenere prestiti e ad accumulare debiti, arrivando a dichiarare fallimento ancora molte volte: nel 1560, 1575, 1596, 1607, 1627, e ben quattro volte fra il 1647 e il 1662. Si stima che negli ultimi anni del Cinquecento circa la metà degli introiti previsti della Corona fossero destinati al pagamento dei debiti. Per i banchieri il legame con i monarchi, se inizialmente consentì loro di accumulare ricchezze e potere, si rivelò alla lunga un abbraccio mortale, che rovinò grandi fortune e disperse immensi patrimoni. 
Un re poteva essere un ottimo cliente quando era in grado di pagare i propri debiti, ma un cliente pessimo quando arrivava a regolare le sue insolvenze per decreto.