Vladimir Putin è di nuovo presidente della Federazione russa. Il 5 marzo 2012, 59esimo anniversario della morte di Stalin, è stata ufficializzata la sua rielezione. Un voto controverso, la cui regolarità è stata contestata dagli oppositori e su cui anche l'Ocse ha espresso dei dubbi.
Di certo una vittoria così schiacciante (63,75% dei voti) da parte di un personaggio discutibile e discusso come Putin stimola una riflessione sul futuro che i russi immaginano per sé e il proprio paese. I metodi di governo dell'ex funzionario del Kgb, già presidente dal 2000 al 2008 ed "eminenza grigia" della presidenza Medvedev, fanno saltare sulla sedia i veri democratici: censura sistematica, propaganda, forme appena velate di culto della personalità, repressione del dissenso.
Un sistema di esercizio del potere che ha un nome ben preciso: autoritarismo. Il termine è forte e anche in Occidente si tende ad adoperarlo con prudenza, soprattutto nei confronti di un Paese che si professa democratico (come se la democrazia fosse un problema di autocertificazioni e non una concreta prassi politica). I giornali europei parlano spesso di Putin come di uno "Zar", proprio a sottolineare il carattere "dispotico" della sua leadership. Hanno ragione? Si può vedere una linea di continuità con gli autoritarismi che hanno caratterizzato la vita politica russa nel passato?
È indubbio che la Russia di oggi abbia ancora molta strada da fare prima di potersi definire una vera democrazia. Il problema non riguarda solo le strutture politiche e istituzionali, ma la cultura e la mentalità in generale. I russi sono stati abituati per secoli a sottostare a un potere centrale forte, onnipotente, autoreferenziale e chiuso.
La monarchia zarista è stata una forma di assolutismo sui generis, poco o per nulla mitigata dall'onda del pensiero illuminista e della rivoluzione francese. La legge definiva il sovrano "autocrate", dotato cioè di un potere fondato su se stesso e considerato "illimitato". Ancora all'inizio del Novecento lo zar era il padre-padrone della Russia e ogni tentativo di trasformazione dell'autocrazia in senso costituzionale fu duramente contrastato. Solo la rivoluzione del 1905 portò a una parziale apertura, con l'istituzione della Duma e la concessione di blande forme di voto e rappresentanza politica ai ceti borghesi. Lo zar negava molto più di quanto concedeva, e contribuiva ottusamente al rafforzamento delle correnti rivoluzionarie.
La rivoluzione bolscevica del 1917 spazzò via l'ancien régime e stabilì il sistema dei soviet, le assemblee operaie e popolari che avrebbero dovuto generare l'iniziativa politica e trasmetterla al vertice per la sua esecuzione. Il potere veniva trasferito al proletariato, che secondo i principi del marxismo doveva stabilire la propria dittatura temporanea in vista della costruzione del più democratico dei sistemi politici, il comunismo. Ma già negli anni di Lenin (1917-22) il nuovo regime assunse le forme di una dittatura di partito violenta e antidemocratica, che lasciava i russi nella stessa condizione di sudditanza nella quale avevano vissuto sotto lo zarismo. Con Stalin (1922-53) questo sistema dispotico giunse al suo massimo compimento, nelle forme mostruose e aberranti dello stalinismo: terrore a tutti i livelli, persecuzioni, deportazioni di massa, campi di lavoro.
L'esclusione del popolo russo da qualsiasi canale di partecipazione politica e l'imposizione di un'élite dirigente reclutata e addestrata nel partito ha prolungato per altri settant'anni il ritardo della Russia nella conquista della democrazia. Il crollo dell'Urss e la fine del comunismo, nel 1991, hanno aperto la strada al multipartitismo, alle elezioni democratiche, al capitalismo. Ma l'innesto delle nuove strutture sul vecchio apparato è avvenuto in modo troppo rapido e ha comportato scompensi, forzature, incompiutezze. Molte trasformazioni sono avvenute solo in apparenza: sono cambiati i protagonisti della vita pubblica e imprenditoriale del paese, ma sono rimasti i criteri di concentrazione ed esercizio del potere.
Il personalismo, la corruzione, la manipolazione dell'informazione, talvolta la violenza (contro i giornalisti, ad esempio), il lobbismo, la speculazione: un sistema che si è potuto consolidare negli anni proprio grazie ad una leadership autoritaria come quella di Putin, che ha rafforzato le basi del proprio potere grazie all'alleanza con i militari e i servizi segreti, ma anche blandendo i gruppi industriali, favorendo il carrierismo degli elementi più spregiudicati, adottando cioè il capitalismo nella sua versione più aggressiva. All'ombra dello "Zar" sono in molti ad arricchirsi, secondo un principio di reciproca convenienza: all'uno il potere, agli altri il denaro. A pagare, i russi, cioè il resto della popolazione, che sembra tuttavia accettare questo "neozarismo" fino a che esso sarà in grado di garantire quella crescita del tenore di vita generale che si è registrata in questi ultimi dodici anni. Il prezzo pagato, in termini di diritti negati, diseguaglianze, inefficienze, corruzione, deve sembrare evidentemente equo, se ancora nel 2012 hanno scelto l'autoritarismo.
Ma c'è da chiedersi quanto consapevoli siano certe scelte elettorali, in un Paese in cui spadroneggia la propaganda e il sistema educativo non brilla. È proprio l'istruzione, insieme alla diffusione delle informazioni attraverso internet e le nuove tecnologie, la speranza di cambiamento. I regimi si reggono sull'ignoranza e la disinformazione: lo sapevano gli zar, lo sapeva Stalin e il partito comunista, lo sa bene Putin. L'acquisizione di una cultura democratica, legalitaria, garantista e fondata su un'autentica libertà d'opinione è l'unica via possibile per la trasformazione della "autocrazia neoliberale" instaurata da Putin in una vera democrazia occidentale, che spezzi definitivamente quella continuità dell'autoritarismo che ancora opprime il popolo russo. Ma il voto del 4 marzo non fa ben sperare.