martedì 23 ottobre 2012

Una città italiana in Cina


Capitate in una nuova città e vi trovate a passeggiare lungo via Roma, ad ammirare piazza Dante, a fare acquisti lungo corso Vittorio Emanuele. Nulla di straordinario, se non fosse che queste strade, costeggiate da edifici in stile versiliese, si trovano a Tianjin, nel cuore della Cina, una metropoli di quasi tredici milioni di abitanti a circa due ore di viaggio da Pechino.

Quello che ora è solo un piccolo quartiere all'interno di una grande città costituiva nel secolo scorso la Concessione italiana di Tientsin, un'entità territoriale autonoma all'interno del Celeste impero, assegnata nel 1902 al Regno d'Italia come tributo per la vittoria delle potenze europee nella guerra dei Boxer. L'Italia aveva dato un suo piccolo contributo militare alla repressione del movimento antioccidentale ed aveva ottenuto in cambio 124 acri di terreno nel borgo di Tientsin (secondo la vecchia traslitterazione), accanto alle altre concessioni francese e austro-ungarica. 

Piazza Marco Polo negli anni Quaranta.
Gli italiani disegnarono e costruirono la città secondo il proprio gusto estetico, tracciando viali alberati e piazze, abbellendo i luoghi con giardini e fontane. Sorsero via Trieste e Trento, via Firenze, piazza Regina Elena e altri luoghi dai nomi evocativi di ogni città italiana, secondo una toponomastica ancora oggi indicata da cartelli bilingui. Non mancarono gli edifici di culto cattolici, come la chiesa del Sacro Cuore, realizzata in uno stile che ricorda la basilica di Santa Maria delle Grazie a Milano, e che fu anni dopo trasformata in una sala giochi.

La concessione di Tientsin, con a capo un console italiano, godeva di piena autonomia, come una città-stato, con proprie leggi, un proprio microesercito e istituzioni indipendenti come la scuola, la caserma, l'opificio e una banchina riservata nel porto fluviale. La componente italiana mantenne un iniziale distacco dall'elemento locale, ma le barriere etniche e sociali lentamente si abbassarono e nel 1934 la colonia contava 366 italiani che vivevano a stretto contatto con circa cinquemila cinesi. Proprio in quegli anni giunse a Tientsin anche Galeazzo Ciano, genero di Mussolini e suo ministro degli esteri, il quale era convinto di poter esportare il fascismo in Cina e diffonderlo proprio a partire dalla piccola colonia italiana. Il progetto naturalmente fallì, ma del passaggio del gerarca in Oriente rimase comunque un segno: un casinò, che fece fiorire in città il gioco d'azzardo.

Francobollo delle poste di
Tientsin con l'immagine
di Vittorio Emanuele III
(1916)
Fra gli italiani di Tientsin vi furono anche alcuni personaggi che arrivarono a ricoprire ruoli importanti nella vita pubblica locale. Evaristo Caretti divenne il direttore generale delle Poste cinesi, l'ingegnere Gibello Socco fu messo a capo delle ferrovie della Manciuria, mentre Quirino Gerli e Armando De Luca occuparono la direzione delle Dogane nazionali.

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale l'Italia prese le armi al fianco del Giappone, che aveva aggredito la Cina perpetrando massacri e deportazioni anche più gravi, per numero di vittime, di quelli che avvennero nell'Europa occupata dai nazisti. Con l'armistizio dell'8 settembre 1943 il piccolo contingente militare di Tientsin fu annientato dalle truppe giapponesi di stanza nella regione, mantenuta sotto controllo nipponico fino alla fine del conflitto.


La piccola Viareggio lungo il fiume Hai-Ho seguì il destino dell'Italia sconfitta e cessò di esistere, insieme a tutte le altre colonie italiane, nel 1945, dopo 43 anni di autonomia. Le architetture liberty, le belle ville in art déco e i viali alberati caddero nell'oblio, fagocitate dalla nuova Cina che si riappropriava del suo territorio martoriato e si trasformava nella Repubblica popolare sotto la guida di Mao e del Partito comunista. Il ricordo stesso della Tientsin italiana, piccolo quartiere pittoresco di quella grande metropoli che è oggi Tianjin, si è quasi perso del tutto. Pochissimi conoscono la storia di quell'angolo di Italia trapiantato in Cina, la cui memoria sembra vivere ormai solo nelle cartoline d'epoca vendute all'Hotel Hyatt, accanto alla grande stazione ferroviaria.

Architetture italiane nell'odierna Tianjin
Eppure, proprio in questi anni di forsennato sviluppo economico, la Cina sta cominciando a riconsiderare anche quegli aspetti della cultura e del patrimonio storico che per molto tempo sono stati trascurati, addirittura osteggiati dalle politiche del governo comunista. Sono nati progetti di restauro e recupero dell'antica colonia italiana, da offrire come meta insolita ai milioni di turisti che ogni anno visitano la Cina e che sono in costante aumento. La buona stella di Tianjin si chiama Wen Jiabao, primo ministro della Repubblica popolare nato proprio qui, nella città che si piazza al quarto posto nel paese per numero di abitanti. Il recupero del quartiere italiano è prima di tutto un affare economico, per una nazione in pieno boom, ma è anche il segno di una nuova cultura della conservazione e della memoria che sembra farsi largo nella dirigenza politica di questo gigante asiatico.


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Photo Credits.
"Architetture italiane nell'odierna Tianjin": TJArchi-Studio

domenica 7 ottobre 2012

Il mito della battaglia di Lepanto


È uno degli episodi storici più citati nel dibattito pubblico, quando si parla di rapporti fra Cristianesimo e Islam. E quasi sempre, va detto, viene citato a vanvera. È la battaglia di Lepanto, il grande scontro navale fra le forze dell'Europa cristiana e quelle dei turchi musulmani che ebbe luogo il 7 ottobre 1571 nelle acque del golfo di Corinto, in Grecia. La retorica cristiana celebrò quella vittoria sugli ottomani come un trionfo epocale, che aveva salvato l'Europa dal pericolo di un'invasione islamica e ne aveva difeso le radici religiose e l'indipendenza. L'entusiasmo che la notizia suscitò nel continente contribuì alla nascita del “mito”, vivo ancora oggi, secondo cui fu uno scontro decisivo per le sorti della cristianità. Ma si tratta, appunto, di retorica. 
Che cosa ha rappresentato in realtà la vittoria di Lepanto?

La battaglia di Lepanto in un dipinto di Andrea Vicentino (Venezia, Palazzo Ducale)

Poco, stando almeno alle conseguenze politiche. La battaglia non fu che un episodio dell'eterno conflitto fra cristiani e musulmani, che sarebbe continuato ancora nei secoli successivi. L'ostilità fra le potenze europee e i turchi ottomani aveva radici lontane, rintracciabili nella stessa epopea delle Crociate, conclusasi ormai da due secoli. Tuttavia, lo “spirito di crociata” continuava ad animare molti monarchi europei, in particolare i re di Spagna, che si consideravano i primi difensori della fede cattolica e individuavano i loro nemici non soltanto negli “infedeli” musulmani, ma anche negli “eretici” protestanti e calvinisti che imperversavano nel continente dopo la Riforma luterana.

Ma l'attrito con i turchi era solo in parte motivato da questioni religiose. Ben più dannosi per gli interessi occidentali erano gli assalti e le scorrerie dei pirati musulmani, che depredavano le flotte e i porti del Mediterraneo rendendo insicure le tradizionali rotte commerciali. Navi ottomane arrivarono a spingersi anche oltre lo stretto di Gibilterra, razziando le coste atlantiche fino al mar Baltico. La Spagna di Filippo II avvertiva con urgenza la necessità di un'azione dura e risolutiva contro i pirati «barbareschi», ma si risolse ad intervenire solo dopo la conquista turca di Cipro, che nel 1570 venne strappata alla repubblica di Venezia. 

Di fronte ad uno smacco strategico così significativo, papa Pio V riuscì a coalizzare attorno a sé una Lega Santa composta, oltre che dalle forze pontificie, da spagnoli e veneziani, con la presenza anche di Genova e altri stati italiani. Il comando fu affidato a don Giovanni d'Austria, fratello naturale di Filippo II.


La vittoria cristiana fu attribuita all'intervento
della Madonna del Rosario
La battaglia segnò una schiacciante vittoria militare della coalizione italo-spagnola, che distrusse buona parte della flotta ottomana di Selim II e liberò migliaia di schiavi cristiani. L'emozione fu grande in tutta Europa e suscitò manifestazioni spontanee di gioia e celebrazioni. Non mancarono gli eccessi: in Spagna furono attuate dure persecuzioni nei confronti dei moriscos, gli islamici battezzati, i quali venivano accusati di non essersi convertiti sinceramente al cattolicesimo e di continuare a professare in segreto la loro fede. La dimensione religiosa della vittoria fu la più enfatizzata: la convinzione che il trionfo fosse stato propiziato dalla Vergine diede nuovo slancio al culto della Madonna del Rosario e diede alla Cristianità la sensazione di essersi liberata da un lungo incubo.

In realtà, la pur netta vittoria militare, col suo significato psicologico di liberazione da un'antica minaccia, non ebbe alcuna conseguenza politica di rilievo. Venezia fu comunque costretta a riconoscere il possesso ottomano dell'isola di Cipro, che pure aveva rappresentato il casus belli. La flotta turca fu rapidamente ricostruita, mentre rimasero di fatto invariati gli assetti territoriali e i rapporti di forza reciproci. Che la battaglia abbia rinsaldato i legami di solidarietà fra le potenze cristiane è vero solo in parte: alla Lega Santa non aderì infatti la Francia, intenzionata a non compromettere le proprie relazioni diplomatiche con il sultano e a non favorire un trionfo della Spagna.

L'unico vero significato della vittoria di Lepanto fu la dimostrazione che i tanto temuti turchi potevano essere battuti e che la loro invincibilità era solo una leggenda. Un risultato simbolico di per sé importante, ma certo molto più modesto rispetto all'immagine di vittoria epocale che la retorica cattolica ha tramandato fino ad oggi, e che offre ancora a tanti commentatori poco avveduti (o in mala fede) un argomento pretestuoso per giustificare le loro posizioni anti-islamiche.

Lepanto fu quello che oggi definiremmo un grande successo d'immagine per l'Europa cristiana, un simbolo da ostentare come risarcimento per lo shock della perdita di Costantinopoli e come riscatto di fronte a un nemico al quale per secoli ci si era sentiti inferiori.