giovedì 6 settembre 2012

Cosa si intende per "Public History"?


In America la chiamano “Public History” e consiste nel generare e diffondere il sapere storico presso il pubblico più ampio e variegato possibile, servendosi di qualsiasmedium a disposizione. Non la storia che si insegna noiosamente a scuola, dunque, non quella specialistica delle università, nemmeno quella delle ricerche ristrette a pochi “esperti” autoreferenziali. Il concetto di Public History è quello di una divulgazione sans frontières della storia, fatta attraverso i libri, i giornali, le riviste, i siti internet e i blog, gli ebook, la radio e la tv, ma anche le mostre, i musei, i convegni aperti a tutti, le manifestazioni pubbliche e qualsiasi altro mezzo possibile.

Nel mondo anglosassone è un concetto molto comune e si usa per distinguere tutto quell'ambito di professioni e attività che riguardano lo studio della storia al di fuori della ristretta comunità degli storici in senso classico, quelli che appartengono cioè alla “Academic History”. Ciò non vuol dire che i due mondi siano separati e incompatibili. Al contrario, sono due aspetti di una stessa “missione” realizzata con mezzi differenti. Molte università americane propongono degli specifici corsi di studio in Public History ed esiste anche un'associazione nazionale, il National Council on Public History, con sede a Indianapolis, che riunisce le diverse professionalità impegnate in questo campo.

Dando un'occhiata a Wikipedia (in inglese, perché in italiano non esiste nemmeno una pagina corrispondente) si può avere una definizione sintetica ed efficace di Public History: 

«Public history è un'espressione che descrive un'ampia gamma di attività svolte da persone a vario titolo formatesi nell'ambito delle discipline storiche che generalmente lavorano al di fuori dell'ambiente accademico. La pratica della Public history è radicata soprattutto in aree come la conservazione dei beni storici, le scienze archivistiche, la storia orale, la cura dei musei e altre. L'espressione Public History ha iniziato ad essere usata negli Stati Uniti e in Canada verso la fine degli anni Settanta e da allora ha conosciuto una costante crescita nei livelli di professionalità dei vari addetti. I principali ambienti nei quali il public historian lavora sono i musei, le dimore storiche, i siti di interesse storico, i parchi, i luoghi di celebri battaglie, gli archivi, le società di produzione televisiva e cinematografica e gli enti pubblici.»

Serge Noiret, dell'Istituto Universitario Europeo, scrive in un suo saggio sull'argomento:

«Il public historian offre storiografia, crea fonti, costruisce siti per aumentare la consapevolezza della storia e la permanenza delle memorie collettive al di fuori degli ambienti accademici, anche con operazioni di divulgazione scientifica e d'insegnamento della storia al servizio di datori di lavoro pubblici, ma anche privati.»

Oggi la diffusione del sapere storico può avvenire in modo ancora più ampio e rapido attraverso le risorse del web, in un'accezione più estesa e attuale del termine public. Le possibilità che ha oggi la storia di interessare e coinvolgere il grande pubblico, uscendo dalle aule universitarie e dai convegni elitari, sono infinitamente più grandi che in passato. Questo potrebbe accelerare la diffusione – già in atto – anche in Italia del concetto di “storia pubblica” o “storia per tutti”, che non è solo un modo di intendere gli studi storici, ma anche un ben preciso settore professionale, con tutte le occasioni di lavoro che potrebbe offrire se fosse adeguatamente valorizzato.

lunedì 3 settembre 2012

Quando i re di Spagna facevano bancarotta


Le crisi finanziarie non sono una prerogativa del mondo moderno. Anche se oggi i meccanismi del credito e il sistema monetario e bancario sono decisamente più ampi e complessi che in passato, certe dinamiche riguardo l'indebitamento pubblico sono rimaste le stesse. Nel Cinque-Seicento, ad esempio, avvenne più volte che i sovrani di Spagna, travolti dai debiti, dichiarassero la bancarotta.

Le prime banche, ossia compagnie di mercanti che offrivano servizi finanziari, erano nate in Italia nel Basso Medioevo e avevano cominciato a diffondersi a partire dal Duecento. I più esperti nell'arte del credito furono inizialmente i fiorentini, che spesso aprivano “filiali” in altri regni della Penisola per estendere i loro giri d'affari. Banchi come quelli degli Strozzi, dei Peruzzi, dei Bardi erano molto conosciuti e si rivolgevano a clienti facoltosi ma anche a commercianti, artigiani e piccoli risparmiatori, movimentando grandi masse di denaro. Per far fronte alle esigenze pratiche che derivavano da queste attività, i mercanti italiani inventarono molti degli strumenti creditizi e contabili che si utilizzano ancora oggi, o perfezionarono quelli già esistenti: la cambiale (detta lettera di cambio), l'assegno circolare, i buoni del tesoro, la partita doppia.

Il legame fra banchieri privati e potere pubblico andò stringendosi ancora di più nel  Rinascimento, un'epoca di guerre sanguinose e pressoché continue, combattute ovunque in Europa da sovrani scaltri e ambiziosi. 

Jakob Fugger brucia i titoli di credito davanti a Carlo V
Il più potente fra i monarchi della terra era Carlo V d'Asburgo, re di Spagna e poi anche imperatore del Sacro Romano Impero, padrone di un dominio che attraversava tutte le latitudini. Per sostenere, difendere e ampliare un impero del genere, Carlo aveva bisogno di enormi quantità di denaro, che i soli proventi delle tasse non erano in grado di assicurare. Come altri sovrani prima e dopo di lui, anche l'imperatore decise di rivolgersi ai mercanti-banchieri per ottenere prestiti coi quali finanziare le proprie campagne.

I principali creditori dell'Asburgo furono i Fugger, famiglia di banchieri tedeschi che arrivò ad annoverare fra i propri clienti vari monarchi europei, finendo con l'influenzare gli equilibri continentali con le proprie politiche finanziarie. Ma ciò significò anche, per i creditori, esporsi a gravi rischi: furono proprio le sistematiche insolvenze delle varie teste coronate a segnare il declino e poi il fallimento del banco dei Fugger, come già avvenuto nel Trecento a danno dei Bardi e dei Peruzzi. Carlo V si rivolse anche ad altri istituti – i catalani avevano acquisito posizioni importanti nel mercato finanziario, che restava però dominato dai genovesi – e alla sua abdicazione, nel 1556, lasciò in eredità al figlio, insieme alla corona di Spagna, una montagna di debiti (si parla di circa 30 milioni di ducati).

Filippo II di Spagna ritratto da Tiziano (1549-50) 
Filippo II non aveva la stessa passione del padre per le spedizioni e le conquiste. Era un uomo mite, solitario, eternamente rinchiuso fra le mura di quella reggia-monastero che era l'Escorial. Qualche guerra dovette combatterla anche lui, in particolare per mantenere il controllo delle Province Unite (gli odierni Paesi Bassi) che si ribellavano al dominio spagnolo. Ma anche in tempo di pace le spese della Corona crescevano a dismisura, in parallelo con l'espandersi delle strutture burocratiche dello Stato. I debiti accumulati nei confronti dei banchieri divennero presto inestinguibili e a ripagarli non bastarono gli aumenti di tasse, basate peraltro su un sistema di prelievo inefficiente.

Nel 1557 Filippo II si risolse a prendere una decisione estrema: dichiarare la bancarotta. In realtà si trattava di qualcosa di molto diverso dalla bancarotta di una comune impresa privata. Il sovrano, in virtù del suo potere, stabiliva unilateralmente la riconversione dei prestiti a breve termine (detti juros e caratterizzati da alti tassi d'interesse) in titoli di debito consolidato (detti asientos), che avevano termini di scadenza più lunghi e interessi più bassi. Lo Stato dichiarava bancarotta ma a fallire erano dunque i banchieri, che non ottenendo la restituzione dei prestiti finivano gambe all'aria nel giro di pochi anni.

I re di Spagna non impararono mai a gestire in modo accorto le finanze. Continuarono a ottenere prestiti e ad accumulare debiti, arrivando a dichiarare fallimento ancora molte volte: nel 1560, 1575, 1596, 1607, 1627, e ben quattro volte fra il 1647 e il 1662. Si stima che negli ultimi anni del Cinquecento circa la metà degli introiti previsti della Corona fossero destinati al pagamento dei debiti. Per i banchieri il legame con i monarchi, se inizialmente consentì loro di accumulare ricchezze e potere, si rivelò alla lunga un abbraccio mortale, che rovinò grandi fortune e disperse immensi patrimoni. 
Un re poteva essere un ottimo cliente quando era in grado di pagare i propri debiti, ma un cliente pessimo quando arrivava a regolare le sue insolvenze per decreto.