giovedì 6 dicembre 2012

Una lezione dal passato sul futuro dell'euro


«Nessuna unione monetaria è sopravvissuta senza una unione politica e fiscale». Ad affermarlo sono gli economisti americani Nouriel Roubini e Arnab Das, i quali prevedono un futuro turbolento per l'euro se i legami fra gli stati europei non si faranno più stretti. Ma a quale precedente storico si rifanno i due?

La vicenda è poco nota, ma già a partire dall'Ottocento furono tentati dei primi esperimenti di libera circolazione monetaria su scala sovranazionale, destinati a mettere in luce gli elementi di forza e quelli di debolezza di un sistema di questo tipo.

Il primo passo fu compiuto nel 1857, quando lo Zollverein, il mercato comune degli stati tedeschi, siglò un accordo di collaborazione monetaria con l'Austria. Il patto ebbe breve durata e ben scarsi risultati, finendo travolto dalle rivalità fra austriaci e prussiani sfociate in guerra nel 1866. 

Napoleone III, imperatore dei Francesi
L'idea però era piaciuta a Napoleone III, che nel 1865 tenne a battesimo l'Unione monetaria latina, un'area di scambio valutario ancorata al franco nella quale confluirono la Francia, l'Italia, la Svizzera e il Belgio. Negli anni seguenti vi presero parte anche la Grecia, l'Austria, la Romania, la Bulgaria, la Serbia e varie nazioni coloniali come Eritrea, Congo, Tunisia e Porto Rico, per un totale di ben trentadue aderenti. Per i contemporanei si trattò di un passo fondamentale verso la creazione di una moneta universale, un precedente che, auspicabilmente, avrebbe ispirato la nascita di nuove federazioni simili.

Il progetto suscitò l'ostilità dell'Inghilterra, che temeva un rafforzamento delle economie del continente a discapito della City. L'economista britannico Walter Bagehot, mentre elaborava un piano di alleanza con gli Stati Uniti in funzione di contrattacco, sostenne che l'unione monetaria finisse con l'indebolire le valute che vi circolavano, innescando fenomeni inflazionistici. 

Malgrado le difficoltà, l'unione voluta da Napoleone III ebbe lunga vita e fu sciolta solo nel 1927, dopo essere sopravvissuta anche alla prima guerra mondiale. Ciò fu possibile perché di fatto essa non influenzava le politiche fiscali e monetarie dei singoli stati membri, che in ambito economico continuavano ad esprimere la loro piena sovranità. L'Unione latina non era che una scatola vuota, un'affermazione di principio che non imponeva vincoli o parametri da rispettare. Fu questa debolezza a favorirne la longevità.

Centesimi di euro
L'euro, invece, si fonda su legami economici molto stretti fra i paesi membri, ma, come sottolineano Roubini e Das, le sue difficoltà nascono proprio dalla insufficiente coesione politica fra i vari stati. L'assenza di un forte organismo statuale centrale, capace di dettare una politica fiscale unica, è da molte parti indicato come il vero punto debole dell'eurozona. La prospettiva di rinunciare a qualche pezzo della propria sovranità è ancora avversata con forza dai governi nazionali, anche quelli più europeisti. 

Che sia questo il nodo fondamentale da sciogliere per il futuro dell'euro e dell'intero progetto di unificazione europea è testimoniato anche dalle parole dell'economista belga Albert Janssen, che già nel 1911 scriveva: «Senza dubbio c'è qualcosa che seduce gli spiriti e che colpisce l'immaginazione nella fraterna unione dei popoli sul terreno monetario... Nelle condizioni attuali il regime monetario deve essere nazionale e deve essere regolato dalla legge di uno Stato indipendente. L'unione politica deve precedere la comunità monetaria».

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Photo credits: "Centesimi di euro" Julien Jorge

martedì 23 ottobre 2012

Una città italiana in Cina


Capitate in una nuova città e vi trovate a passeggiare lungo via Roma, ad ammirare piazza Dante, a fare acquisti lungo corso Vittorio Emanuele. Nulla di straordinario, se non fosse che queste strade, costeggiate da edifici in stile versiliese, si trovano a Tianjin, nel cuore della Cina, una metropoli di quasi tredici milioni di abitanti a circa due ore di viaggio da Pechino.

Quello che ora è solo un piccolo quartiere all'interno di una grande città costituiva nel secolo scorso la Concessione italiana di Tientsin, un'entità territoriale autonoma all'interno del Celeste impero, assegnata nel 1902 al Regno d'Italia come tributo per la vittoria delle potenze europee nella guerra dei Boxer. L'Italia aveva dato un suo piccolo contributo militare alla repressione del movimento antioccidentale ed aveva ottenuto in cambio 124 acri di terreno nel borgo di Tientsin (secondo la vecchia traslitterazione), accanto alle altre concessioni francese e austro-ungarica. 

Piazza Marco Polo negli anni Quaranta.
Gli italiani disegnarono e costruirono la città secondo il proprio gusto estetico, tracciando viali alberati e piazze, abbellendo i luoghi con giardini e fontane. Sorsero via Trieste e Trento, via Firenze, piazza Regina Elena e altri luoghi dai nomi evocativi di ogni città italiana, secondo una toponomastica ancora oggi indicata da cartelli bilingui. Non mancarono gli edifici di culto cattolici, come la chiesa del Sacro Cuore, realizzata in uno stile che ricorda la basilica di Santa Maria delle Grazie a Milano, e che fu anni dopo trasformata in una sala giochi.

La concessione di Tientsin, con a capo un console italiano, godeva di piena autonomia, come una città-stato, con proprie leggi, un proprio microesercito e istituzioni indipendenti come la scuola, la caserma, l'opificio e una banchina riservata nel porto fluviale. La componente italiana mantenne un iniziale distacco dall'elemento locale, ma le barriere etniche e sociali lentamente si abbassarono e nel 1934 la colonia contava 366 italiani che vivevano a stretto contatto con circa cinquemila cinesi. Proprio in quegli anni giunse a Tientsin anche Galeazzo Ciano, genero di Mussolini e suo ministro degli esteri, il quale era convinto di poter esportare il fascismo in Cina e diffonderlo proprio a partire dalla piccola colonia italiana. Il progetto naturalmente fallì, ma del passaggio del gerarca in Oriente rimase comunque un segno: un casinò, che fece fiorire in città il gioco d'azzardo.

Francobollo delle poste di
Tientsin con l'immagine
di Vittorio Emanuele III
(1916)
Fra gli italiani di Tientsin vi furono anche alcuni personaggi che arrivarono a ricoprire ruoli importanti nella vita pubblica locale. Evaristo Caretti divenne il direttore generale delle Poste cinesi, l'ingegnere Gibello Socco fu messo a capo delle ferrovie della Manciuria, mentre Quirino Gerli e Armando De Luca occuparono la direzione delle Dogane nazionali.

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale l'Italia prese le armi al fianco del Giappone, che aveva aggredito la Cina perpetrando massacri e deportazioni anche più gravi, per numero di vittime, di quelli che avvennero nell'Europa occupata dai nazisti. Con l'armistizio dell'8 settembre 1943 il piccolo contingente militare di Tientsin fu annientato dalle truppe giapponesi di stanza nella regione, mantenuta sotto controllo nipponico fino alla fine del conflitto.


La piccola Viareggio lungo il fiume Hai-Ho seguì il destino dell'Italia sconfitta e cessò di esistere, insieme a tutte le altre colonie italiane, nel 1945, dopo 43 anni di autonomia. Le architetture liberty, le belle ville in art déco e i viali alberati caddero nell'oblio, fagocitate dalla nuova Cina che si riappropriava del suo territorio martoriato e si trasformava nella Repubblica popolare sotto la guida di Mao e del Partito comunista. Il ricordo stesso della Tientsin italiana, piccolo quartiere pittoresco di quella grande metropoli che è oggi Tianjin, si è quasi perso del tutto. Pochissimi conoscono la storia di quell'angolo di Italia trapiantato in Cina, la cui memoria sembra vivere ormai solo nelle cartoline d'epoca vendute all'Hotel Hyatt, accanto alla grande stazione ferroviaria.

Architetture italiane nell'odierna Tianjin
Eppure, proprio in questi anni di forsennato sviluppo economico, la Cina sta cominciando a riconsiderare anche quegli aspetti della cultura e del patrimonio storico che per molto tempo sono stati trascurati, addirittura osteggiati dalle politiche del governo comunista. Sono nati progetti di restauro e recupero dell'antica colonia italiana, da offrire come meta insolita ai milioni di turisti che ogni anno visitano la Cina e che sono in costante aumento. La buona stella di Tianjin si chiama Wen Jiabao, primo ministro della Repubblica popolare nato proprio qui, nella città che si piazza al quarto posto nel paese per numero di abitanti. Il recupero del quartiere italiano è prima di tutto un affare economico, per una nazione in pieno boom, ma è anche il segno di una nuova cultura della conservazione e della memoria che sembra farsi largo nella dirigenza politica di questo gigante asiatico.


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Photo Credits.
"Architetture italiane nell'odierna Tianjin": TJArchi-Studio

domenica 7 ottobre 2012

Il mito della battaglia di Lepanto


È uno degli episodi storici più citati nel dibattito pubblico, quando si parla di rapporti fra Cristianesimo e Islam. E quasi sempre, va detto, viene citato a vanvera. È la battaglia di Lepanto, il grande scontro navale fra le forze dell'Europa cristiana e quelle dei turchi musulmani che ebbe luogo il 7 ottobre 1571 nelle acque del golfo di Corinto, in Grecia. La retorica cristiana celebrò quella vittoria sugli ottomani come un trionfo epocale, che aveva salvato l'Europa dal pericolo di un'invasione islamica e ne aveva difeso le radici religiose e l'indipendenza. L'entusiasmo che la notizia suscitò nel continente contribuì alla nascita del “mito”, vivo ancora oggi, secondo cui fu uno scontro decisivo per le sorti della cristianità. Ma si tratta, appunto, di retorica. 
Che cosa ha rappresentato in realtà la vittoria di Lepanto?

La battaglia di Lepanto in un dipinto di Andrea Vicentino (Venezia, Palazzo Ducale)

Poco, stando almeno alle conseguenze politiche. La battaglia non fu che un episodio dell'eterno conflitto fra cristiani e musulmani, che sarebbe continuato ancora nei secoli successivi. L'ostilità fra le potenze europee e i turchi ottomani aveva radici lontane, rintracciabili nella stessa epopea delle Crociate, conclusasi ormai da due secoli. Tuttavia, lo “spirito di crociata” continuava ad animare molti monarchi europei, in particolare i re di Spagna, che si consideravano i primi difensori della fede cattolica e individuavano i loro nemici non soltanto negli “infedeli” musulmani, ma anche negli “eretici” protestanti e calvinisti che imperversavano nel continente dopo la Riforma luterana.

Ma l'attrito con i turchi era solo in parte motivato da questioni religiose. Ben più dannosi per gli interessi occidentali erano gli assalti e le scorrerie dei pirati musulmani, che depredavano le flotte e i porti del Mediterraneo rendendo insicure le tradizionali rotte commerciali. Navi ottomane arrivarono a spingersi anche oltre lo stretto di Gibilterra, razziando le coste atlantiche fino al mar Baltico. La Spagna di Filippo II avvertiva con urgenza la necessità di un'azione dura e risolutiva contro i pirati «barbareschi», ma si risolse ad intervenire solo dopo la conquista turca di Cipro, che nel 1570 venne strappata alla repubblica di Venezia. 

Di fronte ad uno smacco strategico così significativo, papa Pio V riuscì a coalizzare attorno a sé una Lega Santa composta, oltre che dalle forze pontificie, da spagnoli e veneziani, con la presenza anche di Genova e altri stati italiani. Il comando fu affidato a don Giovanni d'Austria, fratello naturale di Filippo II.


La vittoria cristiana fu attribuita all'intervento
della Madonna del Rosario
La battaglia segnò una schiacciante vittoria militare della coalizione italo-spagnola, che distrusse buona parte della flotta ottomana di Selim II e liberò migliaia di schiavi cristiani. L'emozione fu grande in tutta Europa e suscitò manifestazioni spontanee di gioia e celebrazioni. Non mancarono gli eccessi: in Spagna furono attuate dure persecuzioni nei confronti dei moriscos, gli islamici battezzati, i quali venivano accusati di non essersi convertiti sinceramente al cattolicesimo e di continuare a professare in segreto la loro fede. La dimensione religiosa della vittoria fu la più enfatizzata: la convinzione che il trionfo fosse stato propiziato dalla Vergine diede nuovo slancio al culto della Madonna del Rosario e diede alla Cristianità la sensazione di essersi liberata da un lungo incubo.

In realtà, la pur netta vittoria militare, col suo significato psicologico di liberazione da un'antica minaccia, non ebbe alcuna conseguenza politica di rilievo. Venezia fu comunque costretta a riconoscere il possesso ottomano dell'isola di Cipro, che pure aveva rappresentato il casus belli. La flotta turca fu rapidamente ricostruita, mentre rimasero di fatto invariati gli assetti territoriali e i rapporti di forza reciproci. Che la battaglia abbia rinsaldato i legami di solidarietà fra le potenze cristiane è vero solo in parte: alla Lega Santa non aderì infatti la Francia, intenzionata a non compromettere le proprie relazioni diplomatiche con il sultano e a non favorire un trionfo della Spagna.

L'unico vero significato della vittoria di Lepanto fu la dimostrazione che i tanto temuti turchi potevano essere battuti e che la loro invincibilità era solo una leggenda. Un risultato simbolico di per sé importante, ma certo molto più modesto rispetto all'immagine di vittoria epocale che la retorica cattolica ha tramandato fino ad oggi, e che offre ancora a tanti commentatori poco avveduti (o in mala fede) un argomento pretestuoso per giustificare le loro posizioni anti-islamiche.

Lepanto fu quello che oggi definiremmo un grande successo d'immagine per l'Europa cristiana, un simbolo da ostentare come risarcimento per lo shock della perdita di Costantinopoli e come riscatto di fronte a un nemico al quale per secoli ci si era sentiti inferiori.

giovedì 6 settembre 2012

Cosa si intende per "Public History"?


In America la chiamano “Public History” e consiste nel generare e diffondere il sapere storico presso il pubblico più ampio e variegato possibile, servendosi di qualsiasmedium a disposizione. Non la storia che si insegna noiosamente a scuola, dunque, non quella specialistica delle università, nemmeno quella delle ricerche ristrette a pochi “esperti” autoreferenziali. Il concetto di Public History è quello di una divulgazione sans frontières della storia, fatta attraverso i libri, i giornali, le riviste, i siti internet e i blog, gli ebook, la radio e la tv, ma anche le mostre, i musei, i convegni aperti a tutti, le manifestazioni pubbliche e qualsiasi altro mezzo possibile.

Nel mondo anglosassone è un concetto molto comune e si usa per distinguere tutto quell'ambito di professioni e attività che riguardano lo studio della storia al di fuori della ristretta comunità degli storici in senso classico, quelli che appartengono cioè alla “Academic History”. Ciò non vuol dire che i due mondi siano separati e incompatibili. Al contrario, sono due aspetti di una stessa “missione” realizzata con mezzi differenti. Molte università americane propongono degli specifici corsi di studio in Public History ed esiste anche un'associazione nazionale, il National Council on Public History, con sede a Indianapolis, che riunisce le diverse professionalità impegnate in questo campo.

Dando un'occhiata a Wikipedia (in inglese, perché in italiano non esiste nemmeno una pagina corrispondente) si può avere una definizione sintetica ed efficace di Public History: 

«Public history è un'espressione che descrive un'ampia gamma di attività svolte da persone a vario titolo formatesi nell'ambito delle discipline storiche che generalmente lavorano al di fuori dell'ambiente accademico. La pratica della Public history è radicata soprattutto in aree come la conservazione dei beni storici, le scienze archivistiche, la storia orale, la cura dei musei e altre. L'espressione Public History ha iniziato ad essere usata negli Stati Uniti e in Canada verso la fine degli anni Settanta e da allora ha conosciuto una costante crescita nei livelli di professionalità dei vari addetti. I principali ambienti nei quali il public historian lavora sono i musei, le dimore storiche, i siti di interesse storico, i parchi, i luoghi di celebri battaglie, gli archivi, le società di produzione televisiva e cinematografica e gli enti pubblici.»

Serge Noiret, dell'Istituto Universitario Europeo, scrive in un suo saggio sull'argomento:

«Il public historian offre storiografia, crea fonti, costruisce siti per aumentare la consapevolezza della storia e la permanenza delle memorie collettive al di fuori degli ambienti accademici, anche con operazioni di divulgazione scientifica e d'insegnamento della storia al servizio di datori di lavoro pubblici, ma anche privati.»

Oggi la diffusione del sapere storico può avvenire in modo ancora più ampio e rapido attraverso le risorse del web, in un'accezione più estesa e attuale del termine public. Le possibilità che ha oggi la storia di interessare e coinvolgere il grande pubblico, uscendo dalle aule universitarie e dai convegni elitari, sono infinitamente più grandi che in passato. Questo potrebbe accelerare la diffusione – già in atto – anche in Italia del concetto di “storia pubblica” o “storia per tutti”, che non è solo un modo di intendere gli studi storici, ma anche un ben preciso settore professionale, con tutte le occasioni di lavoro che potrebbe offrire se fosse adeguatamente valorizzato.

lunedì 3 settembre 2012

Quando i re di Spagna facevano bancarotta


Le crisi finanziarie non sono una prerogativa del mondo moderno. Anche se oggi i meccanismi del credito e il sistema monetario e bancario sono decisamente più ampi e complessi che in passato, certe dinamiche riguardo l'indebitamento pubblico sono rimaste le stesse. Nel Cinque-Seicento, ad esempio, avvenne più volte che i sovrani di Spagna, travolti dai debiti, dichiarassero la bancarotta.

Le prime banche, ossia compagnie di mercanti che offrivano servizi finanziari, erano nate in Italia nel Basso Medioevo e avevano cominciato a diffondersi a partire dal Duecento. I più esperti nell'arte del credito furono inizialmente i fiorentini, che spesso aprivano “filiali” in altri regni della Penisola per estendere i loro giri d'affari. Banchi come quelli degli Strozzi, dei Peruzzi, dei Bardi erano molto conosciuti e si rivolgevano a clienti facoltosi ma anche a commercianti, artigiani e piccoli risparmiatori, movimentando grandi masse di denaro. Per far fronte alle esigenze pratiche che derivavano da queste attività, i mercanti italiani inventarono molti degli strumenti creditizi e contabili che si utilizzano ancora oggi, o perfezionarono quelli già esistenti: la cambiale (detta lettera di cambio), l'assegno circolare, i buoni del tesoro, la partita doppia.

Il legame fra banchieri privati e potere pubblico andò stringendosi ancora di più nel  Rinascimento, un'epoca di guerre sanguinose e pressoché continue, combattute ovunque in Europa da sovrani scaltri e ambiziosi. 

Jakob Fugger brucia i titoli di credito davanti a Carlo V
Il più potente fra i monarchi della terra era Carlo V d'Asburgo, re di Spagna e poi anche imperatore del Sacro Romano Impero, padrone di un dominio che attraversava tutte le latitudini. Per sostenere, difendere e ampliare un impero del genere, Carlo aveva bisogno di enormi quantità di denaro, che i soli proventi delle tasse non erano in grado di assicurare. Come altri sovrani prima e dopo di lui, anche l'imperatore decise di rivolgersi ai mercanti-banchieri per ottenere prestiti coi quali finanziare le proprie campagne.

I principali creditori dell'Asburgo furono i Fugger, famiglia di banchieri tedeschi che arrivò ad annoverare fra i propri clienti vari monarchi europei, finendo con l'influenzare gli equilibri continentali con le proprie politiche finanziarie. Ma ciò significò anche, per i creditori, esporsi a gravi rischi: furono proprio le sistematiche insolvenze delle varie teste coronate a segnare il declino e poi il fallimento del banco dei Fugger, come già avvenuto nel Trecento a danno dei Bardi e dei Peruzzi. Carlo V si rivolse anche ad altri istituti – i catalani avevano acquisito posizioni importanti nel mercato finanziario, che restava però dominato dai genovesi – e alla sua abdicazione, nel 1556, lasciò in eredità al figlio, insieme alla corona di Spagna, una montagna di debiti (si parla di circa 30 milioni di ducati).

Filippo II di Spagna ritratto da Tiziano (1549-50) 
Filippo II non aveva la stessa passione del padre per le spedizioni e le conquiste. Era un uomo mite, solitario, eternamente rinchiuso fra le mura di quella reggia-monastero che era l'Escorial. Qualche guerra dovette combatterla anche lui, in particolare per mantenere il controllo delle Province Unite (gli odierni Paesi Bassi) che si ribellavano al dominio spagnolo. Ma anche in tempo di pace le spese della Corona crescevano a dismisura, in parallelo con l'espandersi delle strutture burocratiche dello Stato. I debiti accumulati nei confronti dei banchieri divennero presto inestinguibili e a ripagarli non bastarono gli aumenti di tasse, basate peraltro su un sistema di prelievo inefficiente.

Nel 1557 Filippo II si risolse a prendere una decisione estrema: dichiarare la bancarotta. In realtà si trattava di qualcosa di molto diverso dalla bancarotta di una comune impresa privata. Il sovrano, in virtù del suo potere, stabiliva unilateralmente la riconversione dei prestiti a breve termine (detti juros e caratterizzati da alti tassi d'interesse) in titoli di debito consolidato (detti asientos), che avevano termini di scadenza più lunghi e interessi più bassi. Lo Stato dichiarava bancarotta ma a fallire erano dunque i banchieri, che non ottenendo la restituzione dei prestiti finivano gambe all'aria nel giro di pochi anni.

I re di Spagna non impararono mai a gestire in modo accorto le finanze. Continuarono a ottenere prestiti e ad accumulare debiti, arrivando a dichiarare fallimento ancora molte volte: nel 1560, 1575, 1596, 1607, 1627, e ben quattro volte fra il 1647 e il 1662. Si stima che negli ultimi anni del Cinquecento circa la metà degli introiti previsti della Corona fossero destinati al pagamento dei debiti. Per i banchieri il legame con i monarchi, se inizialmente consentì loro di accumulare ricchezze e potere, si rivelò alla lunga un abbraccio mortale, che rovinò grandi fortune e disperse immensi patrimoni. 
Un re poteva essere un ottimo cliente quando era in grado di pagare i propri debiti, ma un cliente pessimo quando arrivava a regolare le sue insolvenze per decreto.

sabato 4 agosto 2012

Mosca, la Terza Roma


C'è una città che da almeno cinque secoli rivendica per sé il titolo di Terza Roma, erede della grandezza imperiale dei Cesari. Si tratta di Mosca, capitale della Russia e sede di uno dei più importanti patriarcati della Chiesa ortodossa. Come nasce questo collegamento?
L'idea che l'eredità di Bisanzio fosse stata legittimamente raccolta dai Russi del Principato di Moscovia risale agli inizi del Cinquecento, ossia alcuni decenni dopo la caduta di Costantinopoli. Il sultano ottomano Mehmet II, che aveva conquistato la città il 29 maggio 1453, si attribuì il titolo di imperatore dei Romani, ma il mondo cristiano non lo accettò come tale. L'aquila imperiale, scalzata dalla sua millenaria sede sul Bosforo, cercava una nuova patria e la trovò anni dopo sulle sponde della Moscova.

Mehmet II entra in Costantinopoli, 29 maggio 1453
In realtà, l'idea che i popoli slavi fossero i continuatori della civiltà bizantina si era fatta strada già nel corso del Trecento in area balcanica, quando la capitale bulgara Tarnovo si era fregiata del titolo di Città dei Cesari alla pari di Costantinopoli. A Bisanzio si doveva l'evangelizzazione dell'Europa dell'Est nel X secolo, motivo per cui l'intero complesso dei popoli slavi gravitava da sempre nell'orbita culturale della compagine bizantina. Di fronte al progressivo assoggettamento della Bulgaria da parte dei turchi, il vescovo bulgaro Cipriano fuggì a Mosca e nel 1381 ne divenne metropolita, trasferendo alla città l'idea di un legame di continuità con la capitale di Costantino, che ormai aveva perso il suo potere e la sua grandezza sotto i colpi dell'avanzata ottomana.

Il primo a rivendicare apertamente il titolo di Terza Roma per la città di Mosca, nella seconda metà del Quattrocento, fu il principe Ivan III di Moscovia, che avendo sposato la nipote di Costantino XI, ultimo imperatore bizantino, si considerava a pieno titolo erede della dignità imperiale. La pretesa che Mosca fosse la nuova sede legittima dell'aquila bicipite poggiava anche su motivazioni religiose: i Russi diventavano i nuovi difensori della fede ortodossa non solo contro l'Islam ma anche contro il cattolicesimo romano, che a lungo aveva cercato di sottomettere le chiese orientali al principio della supremazia del Papato. Mosca ereditava dunque la stessa funzione spirituale che era stata di Bisanzio e il suo patriarcato acquisiva grande importanza e prestigio nel mondo ortodosso, anche se non arrivò mai ad esercitare una potestà esclusiva come quella del vescovo di Roma sulla chiesa occidentale. A rafforzare le rivendicazioni di Mosca contribuiva anche il fatto che la città, al pari di Roma e Costantinopoli, sorgeva su un complesso di sette colli: il suo destino era dunque inscritto nella sua stessa origine.

Mosca nel medioevo in un quadro di Apollinarij Vasnecov

Nel 1510, in un panegirico dedicato a Vasili III, figlio di Ivan III e di Sofia Paleologa, il principe veniva salutato come erede di Roma e di Costantinopoli, custode della dignità imperiale e tutore della cristianità ortodossa. Questa funzione venne ulteriormente rafforzata dal successore Ivan IV il Terribile, che nel 1547 fu il primo sovrano russo ad essere incoronato. Il testo della cerimonia, scritto dal metropolita Macario, si riferiva apertamente alla dottrina della Terza Roma e fu la base sulla quale gli zar fondarono anche in futuro la loro pretesa di essere i continuatori dell'impero romano. L'investitura di Mosca come Terza Roma poteva dirsi completata.

venerdì 27 luglio 2012

La strana crociata di Federico II


Federico II di Svevia
Se c'è un personaggio eccentrico nella storia dell'Europa medievale, quello è sicuramente Federico II di Hohenstaufen, re di Germania e di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero. Soprannominato “Stupor Mundi” ("Meraviglia del mondo") per le sue eccezionali qualità, il sovrano svevo fu anche protagonista della più singolare delle crociate che l'Occidente cristiano abbia mosso contro l'Oriente musulmano. Nel computo “ufficiale” delle spedizioni figura generalmente come la Sesta crociata, ma vari storici hanno preferito indicarla come “la crociata di Federico”, proprio a sottolinearne il carattere di unicità.

L'erede della casata del Barbarossa era stato allevato presso la corte papale durante il pontificato del grande Innocenzo III, il cui successore, Onorio III, era molto legato al giovane principe in quanto suo istitutore. Fin dal 1220, in cambio dell'incoronazione a imperatore, il papa aveva chiesto a Federico di guidare una spedizione in soccorso dei cristiani d'Oriente, il cui regno era stato notevolmente ridotto dalle conquiste di Saladino (la stessa Gerusalemme era caduta nelle mani dei musulmani nel 1187). 

Il sovrano tergiversò, preso com'era dall'urgenza di consolidare il proprio potere in Sicilia e in Germania e impegnato nel tentativo di sottomettere anche le città ribelli dell'Italia settentrionale. La partenza venne di volta in volta rimandata, provocando il disappunto del pontefice e la delusione dei franchi di “Outremer”, che avevano bisogno del suo aiuto.

Per potersi presentare in Oriente vantando titoli di legittimità, il 9 novembre 1225 Federico sposò a Brindisi Jolanda di Brienne, erede del regno di Gerusalemme, dalla quale ebbe un figlio, Corrado. Come re consorte la sua leadership sulla crociata e sui nobili di Outremer era fuori discussione ed egli poteva finalmente partire. Ma chiese ancora una dilazione di due anni, che impedì ad Onorio, morto nel marzo 1227, di vedere realizzato il proprio desiderio. Il successore, Gregorio IX, fu molto più severo e risoluto: quando la spedizione, partita da Brindisi nell'agosto 1227, rientrò rapidamente ad Otranto a causa di un'epidemia scoppiata a bordo delle navi, il papa scomunicò Federico II e lo diffidò dal recarsi in Terrasanta. L'imperatore ignorò l'anatema pontificio e nel 1228 diede finalmente il via alla sua crociata.

Dopo una sosta a Cipro, nella quale provocò una guerra civile fra i baroni del regno cipriota nel tentativo di stabilire su di esso la propria sovranità, a settembre Federico sbarcò ad Acri, capitale del regno cristiano, dove apprese che papa Gregorio lo aveva nuovamente scomunicato per essere partito senza essersi riconciliato con la Chiesa. Un capo crociato scomunicato non si era mai visto in Oriente e questo spinse molti baroni locali ad un atteggiamento distaccato nei suoi confronti. Inoltre, era evidente che il sovrano svevo aveva intenzione di imporsi come autocrate dell'intero Oriente cristiano, dove tradizionalmente il potere era gestito da tutti i membri della nobiltà riuniti nell'Alta Corte. L'unico sostegno gli veniva dai soldati tedeschi e italiani partiti con lui dalla Puglia e dall'Ordine dei cavalieri teutonici, mentre l'aristocrazia palestinese e gli ordini militari dei Templari e degli Ospitalieri gli erano ostili.

Federico II e Malik al-Kamil
Federico non era un fanatico religioso. Esperto di teologia e filosofia, era al contrario molto critico nei confronti del cristianesimo e della Chiesa di Roma e nutriva un autentico interesse nei confronti della cultura orientale e della religione islamica. Cresciuto in una Sicilia cosmopolita e tollerante, conosceva l'arabo, aveva amici musulmani ed era in buoni rapporti col sultano d'Egitto Malik al-Kamil, contro il quale in teoria era stata mossa la sua crociata. E in effetti la guerra non ci fu: i due sovrani evitarono lo scontro e preferirono trovare un'intesa vantaggiosa per entrambi, firmando il 18 febbraio 1229 un accordo che prevedeva la cessione ai cristiani di Gerusalemme, Betlemme ed altre città della Galilea,  oltre a una pace di dieci anni.

I baroni del regno furono sconcertati da quel risultato. Trovavano inammissibile che la Città Santa fosse stata riconquistata senza colpo ferire e non potevano tollerare che ai musulmani fosse stato riconosciuto il diritto di continuare a disporre liberamente dei loro luoghi di culto. Anche per gli islamici il sultano aveva tradito la fede e in molti abbandonarono la città. Federico si aspettava di essere celebrato come il trionfatore di quella singolare crociata pacifica, ma ad Acri l'accoglienza fu fredda e la Chiesa locale arrivò a lanciare l'interdetto su Gerusalemme se avesse accolto un sovrano scomunicato.

Il 17 marzo 1229 Federico entrò nella Città Santa in un'atmosfera dimessa e quasi tetra. Accompagnato da un piccolo seguito di cavalieri teutonici, di soldati italiani e tedeschi e da due amici vescovi, unici rappresentanti del clero, l'imperatore attraversò le vie deserte della città e prese dimora nella sede che era stata degli Ospitalieri. L'indomani la sparuta compagnia si recò alla chiesa del Santo Sepolcro per la messa, ma non fu trovato nemmeno un prete. Allora Federico prese dall'altare la corona reale che vi aveva fatto collocare e se la pose sul capo proclamandosi re di Gerusalemme in forza dei diritti di suo figlio Corrado (la moglie Jolanda era morta infatti già prima della partenza della spedizione). Dopo questa lugubre cerimonia, l'imperatore visitò i luoghi santi dell'Islam: i cronisti riportano la manifesta ammirazione del sovrano per quella cultura e le frasi di malcelato disprezzo che pronunciò contro i cristiani. Un cinismo così ostentato e anticonformista non era comprensibile per la mentalità di allora, né dai cristiani né dai musulmani. Già il giorno dopo Federico e il suo seguito lasciarono la città, sulla quale cadeva l'interdetto della Chiesa.

Gli Stati crociati di "Outremer" nel 1229-1241
Rientrato ad Acri, il sovrano nominò dei suoi rappresentanti, urtando ulteriormente i sentimenti di autonomia dei baroni locali, e il 1° maggio si recò al porto per rientrare in Europa. Scelse di partire all'alba, per non farsi vedere da nessuno, ma molti abitanti di Acri si accorsero della sua partenza e gli lanciarono contro budella di animali e sterco, mentre l'imperatore si imbarcava imprecando. La strana crociata del sovrano più potente del mondo finiva così, nel disonore e nell'amarezza.

Il bilancio finale era molto scarso: Gerusalemme era rientrata nelle mani dei cristiani ma era di fatto indifendibile e il sultano avrebbe potuto riconquistarla in qualsiasi momento. Il regno cristiano era stato offeso nelle sue istituzioni e indebolito dalle lotte intestine provocate da Federico, che avrebbe continuato ad esercitare la sua influenza deleteria anche negli anni successivi. Lo Stupor Mundi, che tante imprese gloriose avrebbe compiuto in Europa, lasciava nel Levante un pessimo ricordo di sé: per quanto affascinato dalla cultura orientale, Federico rimaneva un sovrano occidentale. 
Lui e l'Oriente non si compresero mai fino in fondo.

venerdì 20 luglio 2012

La dominazione spagnola in Italia



Quando si parla di dominazione spagnola si pensa subito a un periodo di decadenza e di miseria. Vengono alla mente immagini “manzoniane” di epidemie di peste, tasse opprimenti, soprusi dei dominatori sulla povera gente. È un'idea realistica o solo una leggenda? Cos'è stata davvero per l'Italia la dominazione spagnola?

Carlo V, re di Spagna e imperatore
Intanto proviamo a periodizzare: nel 1559, con la pace di Cateau-Cambrésis, che mise fine alle guerre con la Francia, la Spagna si vide riconosciuta la propria egemonia su gran parte della penisola italiana. La corona spagnola controllava il regno di Napoli, la Sicilia, la Sardegna e il Ducato di Milano ed esercitava un'influenza indiretta su Genova e sulla Toscana medicea. Restavano esclusi da questo dominio solo lo Stato pontificio, che versava comunque in una condizione di debolezza politica, e la Repubblica di Venezia, proiettata verso il Mediterraneo orientale e chiamata a fronteggiare la minaccia turca.

Questa situazione di sottomissione politica alla Spagna si protrasse almeno fino alla fine del Seicento, quando la crisi dinastica per la successione al trono di Madrid aprì la strada ad una nuova egemonia straniera, quella dell'Austria.

Fu davvero un secolo e mezzo di decadenza e sfruttamento, o ci fu dell'altro? Indubbiamente le forme del dominio spagnolo in Italia furono per molti versi opprimenti: il fiscalismo, da sempre eccessivo, si fece ancora più intollerabile nel Seicento, quando il peso dei costi delle campagne militari fu scaricato in gran parte sui possedimenti italiani. La Spagna veniva identificata come il braccio armato della Chiesa della Controriforma, pronta a negare ogni spazio di libertà. Dall'esasperazione popolare scaturirono la rivolta di Masaniello a Napoli nel 1647 e vari altri episodi di sollevazione popolare, sempre duramente repressi. Le condizioni di vita generali erano insoddisfacenti, le epidemie frequenti e la ricchezza concentrata nelle mani di un ceto baronale sempre forte e irrequieto.

La rivolta di Masaniello (Napoli, 1647)


Ma la dominazione spagnola non fu solo questo. Una prima revisione della “leggenda nera” del periodo fu tentata da Benedetto Croce, il quale accusò la storiografia nazionalista del periodo risorgimentale (da Vincenzo Cuoco a Francesco De Sanctis) di aver attribuito alla Spagna delle colpe politiche ed economiche eccessive, senza riconoscere le conseguenze positive del controllo iberico sulla penisola. Il dominio spagnolo garantì il consolidamento delle strutture dello Stato moderno in contrapposizione allo strapotere destabilizzante dei baroni, favorì una «vita politica nazionale» e assicurò all'Italia quasi un secolo di pace ininterrotta, mentre il resto d'Europa continuava a subire i danni di guerre e conflittualità dalle motivazioni religiose e politiche. A fronte di un gravoso prelievo fiscale, le popolazioni italiane potevano dunque beneficiare di una situazione di stabilità e di sicurezza invidiabile per l'Europa dell'epoca.

Una certa decadenza economica dell'Italia in effetti ci fu, ma non si trattò di una conseguenza diretta dell'egemonia spagnola. Fu un fenomeno più generale, collegato al declino del Mediterraneo come spazio commerciale a vantaggio delle rotte atlantiche inaugurate dalla scoperta e dalla colonizzazione del Nuovo Mondo. Gli interessi e la prosperità delle città mercantili italiane furono compromessi dallo spostamento a nord dell'asse dei traffici, che avrebbe arricchito le potenze emergenti dell'Inghilterra e dei Paesi Bassi e avrebbe finito col danneggiare anche la florida Venezia.

Accusare la Spagna imperiale di tutte le sventure dell'Italia dell'epoca è dunque un'esagerazione storiografica, che non tiene conto degli effetti anche positivi che quel dominio comportò. Con la formula dell'antispagnolismo si è data spesso una risposta comoda e convincente alle tante domande sui problemi endemici del Meridione e sulle ragioni del divario Nord-Sud, ma questa visione piatta e unidimensionale non permette di capire a fondo la realtà del dominio spagnolo.

martedì 5 giugno 2012

Come nasce il Gay Pride


Giugno, tempo di Gay Pride Parade, le parate dell'orgoglio omosessuale che si svolgono in molte città del mondo per reclamare visibilità e diritti per le persone gay. Ma qual è l'origine di questa festosa e controversa manifestazione? Perché proprio a giugno?

THE 42nd ANNUAL NYC LGBT PRIDE MARCH  2011     /    Gay Pride Parade  Celebrating The Historic Passage Of The Marriage Equality Law      -     5th Avenue  >  Christopher St. / Stonewall Pl., Greenwich Village NYC     -     06/26/11
Il Gay Pride del 2011 a New York

Tutto ha avuto inizio nel 1969 New York, con i moti dello Stonewall Inn, considerato l'atto di nascita del movimento di liberazione omosessuale. Negli Stati Uniti l'intero decennio degli anni Sessanta era stato attraversato da tensioni continue fra polizia e persone gay, lesbiche e transessuali, riflesso del più ampio fenomeno di mobilitazione contro le discriminazioni che stava interessando la società americana. Erano gli anni delle marce per i diritti dei neri, il periodo di incubazione del femminismo, l'inizio di un risveglio civile e politico che avrebbe portato alla rivoluzione dei costumi sessuali e del diritto di famiglia.

L'intolleranza delle autorità verso le componenti omosex della società era avallata dalla legge, che discriminava apertamente i gay e perseguiva penalmente la sodomia. A New York era consentito ai proprietari dei locali di rifiutarsi di servire gli omosessuali, il che dava origine a frequenti liti, arresti, abusi e denunce contro i poliziotti. Il codice penale dello stato di New York puniva i gestori di locali che servivano persone gay per “favoreggiamento” dell'omosessualità, descritta come «crimine contro la natura».

Lo Stonewall Inn nel 1969
Il locale newyorchese che si oppose più energicamente a tale legislazione fu lo Stonewll Inn, nel Greenwich Village, che divenne il punto di riferimento per la comunità omosessuale del quartiere. Le retate della polizia erano frequenti e i gestori finivano spesso al commissariato di polizia per violazione delle leggi dello stato. Il 28 giugno 1969, di fronte all'ennesimo raid dell'NYPD, i frequentatori del locale, le drag queen e i giovani della zona reagirono con la forza: si ebbero lanci di pietre e bottiglie, scontri fisici, spuntò anche qualche coltello, mentre la voce si spargeva alle strade vicine e altre persone si univano alla sommossa contro la polizia. Gli scontri andarono avanti per ben sei giorni e segnarono l'inizio della mobilitazione politica per il riconoscimento dei diritti dei gay.

Un mese dopo, il 4 luglio, alcuni membri della Mattachine Society – un gruppo di attivisti che già nel 1966 aveva manifestato contro la discriminazione dei gay nei locali di New York – organizzò un picchetto di protesta davanti alla Independece Hall di Philadelphia.

Il 28 giugno 1970, nell'anniversario della rivolta di Stonewall, Craig Rodwell e altri attivisti diedero vita ad una manifestazione chiamata Christopher Street Liberation Day, una marcia pacifica dallo Stonewll Inn a Central Park per reclamare diritti e dignità per tutti gli omosessuali e i transgender. Quello fu il primo Gay Pride della storia, nato fin dall'inizio come occasione per dare visibilità al mondo gay e sensibilizzare l'opinione pubblica e il potere sul tema dei diritti e della lotta contro le discriminazioni.

Oggi, a distanza di 42 anni, le parate dell'orgoglio Lgbt si tengono in numerose città del mondo e giugno è diventato il mese simbolo delle battaglie del movimento omosessuale.  

martedì 29 maggio 2012

Pio XI ucciso dal padre di Claretta Petacci?


E se Pio XI fosse stato ucciso dal suo medico personale, il padre di Claretta Petacci? A suscitare l'inquietante sospetto è stata la riapertura dei diari dell'amante del Duce, desecretati dopo quasi settant'anni di oblio negli archivi dello Stato. Da quelle agende risultano strappate le pagine dal 5 al 12 febbraio 1939, ossia i giorni a cavallo della morte del papa. Chi ha voluto questa manomissione, e perché?

Papa Pio XI nel 1930
Papa Achille Ratti morì il 10 febbraio 1939, all'età di 82 anni, ufficialmente per un attacco di cuore. Voci di un suo possibile assassinio circolarono fin dal primo momento, ma i problemi cardiaci del pontefice erano noti e le speculazioni non ebbero molto seguito.

Le indagini condotte oggi sui diari di Claretta hanno permesso di accertare la sottrazione delle pagine relative a quei giorni cruciali e gettano un'ombra inquietante sulla fine del papa lombardo. Ma ogni assassinio richiede un movente. Perché qualcuno avrebbe voluto la morte del pontefice?

L'attrito fra Pio XI e Mussolini era cosa nota e si era aggravato l'anno precedente dopo l'emanazione delle leggi razziali. Nei diari di Claretta Petacci e di Galeazzo Ciano sono riportati alcuni violenti scatti d'ira del Duce contro il papa, di cui arrivò ad augurarsi la morte. Per Mussolini era intollerabile che Pio XI lo attaccasse sulle politiche antisemite e riteneva questo atteggiamento nefasto per la Chiesa e per la società.

Molti si aspettavano che l'11 febbraio, in occasione del decennale del Concordato fra lo Stato italiano e la Chiesa, il papa avrebbe tenuto un discorso fortemente polemico e accusatorio nei confronti dei regimi fascista e nazista. E avevano ragione a pensarlo, visto che nella bozza di quell'orazione mai pronunciata – il papa morì il giorno prima – i due dittatori venivano paragonati a Nerone (fu Giovanni XXIII, vent'anni dopo, a renderne pubblica una parte). Ancora più pesante l'impatto che avrebbe potuto avere l'enciclica contro l'antisemitismo alla quale il papa stava lavorando in quel periodo, e che fu gettata nel dimenticatoio dal successore Pio XII.

Claretta Petacci
La morte del pontefice alla vigilia di un discorso scomodo e di un'ancor più temibile lettera enciclica giovò sicuramente al fascismo e al nazismo, che da allora non trovarono più nella Chiesa di Roma un vero ostacolo. Se questo era il movente, chi fu l'esecutore materiale? I sospetti cadono inevitabilmente su Francesco Saverio Petacci, archiatra del papa e padre dell'amante di Mussolini. Dai diari della figlia è evidente il rapporto stretto del medico con il Duce, il quale era certamente nella posizione di ottenere da Petacci l'esecuzione di un lavoro del genere a compenso di favori passati o futuri.

Tutto vero o solo l'ennesimo caso di fantapolitica? Difficile dirlo, visti i pochi elementi finora a disposizione. Certo rimane singolare l'eliminazione di quelle pagine dai diari di Claretta, che furono da lei affidati ad un'amica prima del tragico tentativo di fuga con Mussolini conclusosi con la fucilazione a Dongo. A manomettere i diari potrebbe essere stata la stessa Claretta, oppure la contessa Rina Cervis che ne fu la custode, i servizi segreti angloamericani che li visionarono o le autorità italiane che li rinchiusero nell'Archivio di Stato fino ad oggi. Qualcosa da nascondere c'era, su questo non vi sono dubbi. Che avesse a che fare con la morte del papa è quantomeno probabile.

lunedì 28 maggio 2012

Salsedo come Pinelli, il destino di due anarchici


Tutti conoscono la tragica storia di Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico che il 15 dicembre 1969 morì precipitando da una finestra della Questura di Milano durante un interrogatorio sulla strage di piazza Fontana avvenuta tre giorni prima. A distanza di 43 anni da quella notte la verità sulla sua morte non è stata ancora accertata: fu un suicidio, come sostennero i poliziotti presenti, o l'estrema conseguenza di un interrogatorio brutale finito fuori controllo? Un mistero che si è unito ai tanti che ancora oggi avvolgono quell'episodio drammatico della storia italiana, raccontato dal recente film Romanzo di una strage.

Quello che in pochi sanno è che la vicenda di Pinelli ha un precedente. Quarantanove anni prima, il 3 maggio 1920, un uomo di 39 anni, anche lui anarchico, morì in circostanze misteriose precipitando da una finestra del Park Row Building di New York, sede del Dipartimento di Giustizia americano.

Andrea Salsedo, questo era il suo nome, era un italiano di Pantelleria arrivato negli Stati Uniti dieci anni prima. Formatosi nelle idee dell'anarchismo, una volta giunto a New York fu tra gli animatori di un gruppo anarchico costituito da alcune decine di immigrati italiani, tra i quali i più noti saranno Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.

Attentato anarchico a Wall Street, 1920

Uomo di spicco del gruppo era Luigi Galleani, che diede vita ad un periodico chiamato Cronaca Sovversiva, nel quale si faceva esplicito riferimento alla violenza come metodo di lotta politica. Il giornale fu chiuso nel 1918 e Galleani arrestato l'anno successivo, ma le attività del gruppo continuarono. Salsedo si occupò di pubblicare un nuovo opuscolo chiamato Plain Words e si ebbero nuovi episodi di attentati dinamitardi e campagne di opinione contro le autorità. Il suo nome fu incluso dai servizi segreti americani nella lista dei più pericolosi nemici pubblici. Costretto a rifugiarsi in Messico insieme ad altri compagni per sfuggire all'arruolamento nell'esercito, fu arrestato dalle autorità federali nel febbraio del 1920.

Un'immagine di New York nel 1920
Il 3 maggio, durante uno degli interrogatori negli uffici del Bureau of Investigation, diventato poi l'FBI, Salsedo precipitò dal quattordicesimo piano dell'edificio di Park Row. Unico testimone al di fuori dei federali fu il suo compagno di lotta Roberto Elia, il quale inizialmente confermò la tesi del suicidio, affermando che Salsedo aveva scelto la morte pur di non tradire i compagni. Il giornalista e scrittore Carlo Tresca raccontò che in un secondo tempo Elia aveva ritrattato la propria testimonianza, accusando i federali di aver provocato la morte di Salsedo. Come andarono veramente i fatti non è stato mai accertato.

La tragedia scatenò molte reazioni. Mezzo secolo prima di Pinelli, nell'opinione pubblica americana si apriva un dibattito fra sostenitori del suicidio e sostenitori dell'omicidio del tutto identico a quello che avrebbe avvelenato la vita pubblica italiana alla fine del 1969, e che avrebbe innescato l'escalation conclusasi con l'uccisione del commissario Luigi Calabresi nel 1972.

La tragica coincidenza fra i destini di Andrea Salsedo e Giuseppe Pinelli, così distanti nel tempo e nello spazio, rimane ancora singolare e lascia aperte domande e dubbi sulla esatta dinamica delle loro morti.

venerdì 18 maggio 2012

Come sarà rimosso il relitto della Costa Concordia?

Ecco un video con animazioni in 3D che spiega come si svolgerà la rimozione del relitto della nave Costa Concordia, semiaffondata lungo le coste dell'isola del Giglio il 13 gennaio 2012. L'operazione, considerata la più grande impresa di questo genere mai compiuta, partirà nel corso del mese di maggio e durerà circa un anno. La sciagura marittima ha provocato trenta morti e due dispersi.



fonte: repubblica.it

mercoledì 16 maggio 2012

Com'è cambiata l'Europa negli ultimi mille anni

Quanto è cambiata la mappa politica del Vecchio Continente negli ultimi dieci secoli? Quanti stati, staterelli o grandi imperi sono sorti e poi crollati nell'arco di un millennio, a colpi di guerre, invasioni, migrazioni e conquiste?

Ecco un filmato in time lapse che in soli tre minuti riassume le centinaia di variazioni territoriali che hanno segnato la storia europea dall'anno 1000 al 2003, mostrando in modo sorprendentemente efficace la lunga genesi dell'Europa che conosciamo oggi (e che speriamo si riveli più stabile di quella di ieri).



fonte: corriere.it

martedì 15 maggio 2012

"Orbis", il Google Maps dell'Antica Roma

Si chiama Orbis ed è un'applicazione online che permette di calcolare quanto sarebbe durato (e costato) un viaggio tra una città e l'altra dell'Impero romano. Il progetto è stato sviluppato da un team di storici e di esperti di tecnologie informatiche della Stanford University, in California, ed è utilizzabile gratuitamente da questo sito

L'applicazione ha un'interfaccia simile a quella di Google Maps o altri tool di geolocalizzazione, compresi i software dei navigatori satellitari. Una mappa navigabile dell'impero, con le principali città e strade dell'epoca e un box con dei campi in cui inserire le varie informazioni: il luogo di partenza, quello di arrivo, il periodo dell'anno, il tipo di percorso (più veloce, più breve, più lento), i metodi di viaggio (militare, privato, a cavallo). Una volta inseriti i dati, Orbis calcolerà i tempi medi del viaggio e anche il costo in denarii, incrociando una grande quantità di variabili per dare la risposta più verosimile. Sulla mappa compariranno le varie linee dell'itinerario, di colore diverso a seconda delle chiavi di ricerca. 

Ad esempio, per andare da Roma a Costantinopoli partendo a gennaio e viaggiando principalmente per nave, un antico romano avrebbe impiegato quasi 21 giorni, coprendo 2951 chilometri e spendendo quasi 600 denarii per pagare pedaggi o animali da soma. Se avesse scelto di viaggiare via terra percorrendo la via più breve in termini di chilometri, tutti gli altri valori sarebbero lievitati: quasi 52 giorni e oltre 2000 denarii di spese. 



Con questo sistema, Orbis è in grado di calcolare una quantità pressoché infinita di ipotesi di viaggio, tutte storicamente verosimili in quanto tengono conto di una miriade di fattori: le strutture stradali, le tecniche di navigazione, le condizioni atmosferiche dovute alle stagioni, le rotte più frequentate, i mezzi a disposizione e molto altro. Per avere un'idea della complessità del progetto basti pensare che il programma considera ben 751 fra città e insediamenti minori, 268 porti, oltre 84mila chilometri di strade e 28mila di canali e fiumi navigabili. Sul sito sono disponibili tutte le informazioni sul modo in cui l'applicazione è stata sviluppata e sugli studi che lo hanno reso possibile. 

Il risultato è davvero sorprendente per la sua precisione scientifica e aiuta a capire in modo rapido e intuitivo cosa volesse dire viaggiare all'epoca dell'Impero romano, quali tempi, mezzi e spese andassero messi nel conto.